La vedova e le sue due figliole

Charles Perrault

vedova

C’era una volta una vedova che aveva due figlie: la maggiore si chiamava Bianca, la minore Vermiglia. Le chiamavano così perché la prima aveva la più bianca carnagione del mondo e la seconda guance e labbra vermiglie come il corallo.

Un giorno Bianca vide una povera vecchia che si trascinava a stento. “Venite in casa a riposare”, disse alla vecchia e le offrì una sedia per riposare. “Volete bere un sorso?”, disse  alla vecchia. “Altro che!”, questa rispose. “Anzi, avrei molta fame.” “Vi darò tutto quel che potrò”, disse la brava donna. Così dicendo, pregò le figlie di servire la povera vecchia. Alla maggiore disse di andare a cogliere qualche prugna da un susino ch’ella stessa aveva piantato e a cui teneva assai.

Bianca borbottò tra i denti “Sarà proprio per questa vecchia ghiottona che ho avuto tanta cura del mio susino!”. A dire il vero, non osò rifiutare qualche prugna, ma la porse malvolentieri. “E voi, Vermiglia”, disse Bianca alla minore, “che cosa potete offrirle?”. “Sento la mia gallinella che canta: certamente ha fatto l’uovo!” E corse a prendere l’uovo; ma nel momento in cui glielo stava offrendo, la vecchia si trasformò in una bellissima signora che disse alla madre “Io sono la fata Beatrice e voglio ricompensare le vostre figliole: Bianca diverrà una grande regina, Vermiglia una bravissima massaia”.

Così dicendo con la sua bacchettina trasformò la casa in una fattoria. “Questa è roba vostra”, disse la Fata a Vermiglia. “Sia a Bianca che a Vermiglia ho voluto dare quel che preferivano!”. E nel dir queste parole, Beatrice si dileguò. Sia la madre che le figlie entrarono nella fattoria e rimasero incantate nel guardarsi intorno. Nelle stalle c’erano pecore e agnelli, buoi e mucche; nel cortile ogni specie di animali, come galline, anatre, piccioni e altri volatili del genere. C’era pure un grazioso giardino, pieno di fiori e di frutta.

Bianca vedeva senz’alcun’invidia il dono ch’era stato fatto alla sorella e, dal canto suo, pensava soltanto al gran piacere che avrebbe provato nel vedersi regina. Tutt’a un tratto, sentì passare lì accanto alcuni cacciatori e, essendosi affacciata sull’uscio a curiosare, ella apparve così bella agli occhi del Re che lui decise di sposarla.

Divenuta regina, Bianca disse a Vermiglia: “Non voglio più che facciate la contadina; venite con me, sorella mia, vi farò sposare un gran signore”. “Grazie tante sorellina”, rispose Vermiglia; “ma sono abituata alla campagna e voglio restar qui.” Allora la regina Bianca partì; era così contenta che per parecchie notti non dormì dalla gioia.

I primi mesi, fu talmente occupata dai bei vestiti, da balli e da commedie che non pensò più ad altro. Ma ben presto vi fece l’abitudine e nulla la divertiva più; al contrario, cominciarono a pioverle sul capo molti dispiaceri: tutte le dame della Corte la trattavano col massimo rispetto, quando erano in sua presenza; ma lei ben sapeva che non la potevano soffrire e che dicevano: “Guarda un po’ quella contadinella tutte le arie che si dà! Bisogna proprio che il Re abbia un animo ben volgare per essersi scelto una moglie del genere!”.

Simili discorsi invitarono a riflettere il Re. Cominciò a pensare d’aver fatto male a sposare Bianca, e siccome il suo amore per lei era già sfumato, s’innamorò d’una quantità d’altre donne. Quando la gente vide che al Re non importava più nulla della moglie, cominciò a trattarla senza alcun riguardo, e lei era sommamente infelice, perché non aveva una sola amica sincera a cui potesse raccontare i propri crucci.

Si guardava attorno, e vedeva che alla Corte era di moda il tradire gli amici per interesse, far buon viso a coloro che più si odiavano e mentire ogni momento. Inoltre, bisognava comportarsi con molta serietà, perché le avevano detto che una regina deve sempre avere un’aria maestosa e compassata. Mise al mondo parecchi figli e, mentre li aspettava, aveva sempre accanto un medico per esaminare tutto ciò che lei mangiava e toglierle tutte le cose che preferiva: le davano il brodo senza sale, le proibivano di passeggiare quando ne aveva voglia; in breve: non facevano che contrariarla dal mattino alla sera. Ai suoi figli furono date delle governanti che li educavano malissimo, senza che lei potesse mettervi bocca. Così la povera Bianca credeva di morire dalla tristezza e diventò tanto magra che faceva pena solo a vederla.

Erano tre anni dacché non aveva veduto sua sorella, perché pensava che per una persona del suo rango sarebbe stato un disonore andare a trovare una fattoressa; ma, alla fine, sentendosi morire dalla malinconia, si decise a passare qualche giorno in campagna per distrarsi un pochino. Ne chiese il permesso al Re a cui non parve vero d’accordarglielo, pensando così di liberarsi per un pò di tempo dalla sua importuna presenza.

Arrivò verso il tramonto alla fattoria di Vermiglia e di lontano ella scorse, dinanzi all’uscio, uno stuolo di pastori e pastorelle che ballavano e si divertivano a cuor leggero. “Ahimè!”, si disse la Regina sospirando, “dov’è andato il tempo in cui anch’io mi divertivo come questa povera gente? Nessuno allora vi trovava da ridire!”

Non appena ella apparve, sua sorella le corse incontro e l’abbracciò. Aveva una cera così allegra ed era così grassa e tonda che la Regina, guardandola, non poté fare a meno di piangere su se stessa: Vermiglia aveva sposato un giovane contadino che non le aveva portato dei soldi ma ricordava sempre che sua moglie gli aveva dato tutto quel che aveva e, coi suoi modi gentili, cercava di mostrarle la propria riconoscenza.

Vermiglia non aveva certo molti domestici, ma quei pochi che aveva le volevano bene come se fossero stati suoi figli e ciascuno si dava premura di dargliene le prove. Non aveva neppure molto denaro, ma non ne sentiva il bisogno, giacché nella sua terra raccoglieva grano, olio, vino. Le sue greggi le fornivano il latte con il quale faceva il burro e il formaggio. Filava la lana delle sue pecore per vestire se stessa, suo marito e due bambini che aveva. Godevano tutti ottima salute e la sera, quando era finito il lavoro, si divertivano a fare ogni sorta di giochi.

“Ahimè!”, esclamò la Regina, “che brutto regalo mi ha fatto la Fata, dandomi una corona. La gioia non si trova nei palazzi sontuosi, bensì nelle innocenti occupazioni della campagna!” Non aveva ancora finito di dir queste parole che la Fata si mostrò: “Non ho affatto creduto di ricompensarvi, facendovi regina”, le disse la Fata, “ma piuttosto di punirvi, perché mi deste le vostre prugne con tanta malagrazia. Per esser felici bisogna, come vostra sorella, possedere soltanto le cose necessarie e non desiderarne di più”.

“Ah! signora!”, esclamò Bianca, “vi siete abbastanza vendicata, vi prego fate cessare le mie sventure!” “Sono già cessate”, rispose la Fata: “il Re, che non vi vuole più bene, ha sposato or ora un’altra donna e non più tardi di domani i suoi ufficiali verranno a ingiungervi, da parte sua, di non farvi più vedere al palazzo reale.”

Accadde proprio come la Fata aveva predetto: Bianca trascorse il resto dei suoi giorni accanto a Vermiglia, però con moltissima sua soddisfazione e divertimento; non si ricordò della Corte che per ringraziare la Fata di averla ricondotta al suo paesello.

 

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