Alice sotto il salice

Ecco la filastrocca di Cristina (14 gennaio 2003).

Un coniglio, un coniglio
che con fiero cipiglio
s’affrettava nel bosco
verso l’ora del tè

sbarrò il passo ad Alice
stesa all’ombra di un salice,
lanciò uno sguardo in tralice
al suo orologio e oplà!

balzò rapidamente
dentro un oscuro fosso
dileguandosi tosto
nell’immobilità.

Alice, una bambina
che non amava leggere
libri senza figure,
decise quanto prima

di seguir quello strano
passante frettoloso
giù per il tenebroso
abitacolo arcano.

E all’improvviso scende
scende scende e poi ancora
scende in un quarto d’ora
che poteva anche essere

tutta l’eternità
o un brevissimo sogno
in quel pozzo profondo,
giù nell’oscurità.

Finché a un tratto si trova
in una sala stretta
e al centro un tavolino
con sopra una boccetta

che le diceva:”Bevimi!”
Sara mica veleno?
Ma la curiosità
la vinse sul timore

e senza esitazione
né sorbì in quantità.
Che strana sensazione!
Che sapore squisito!

Sapeva di candito,
di croccanti e fois gras!
Poi, con suo gran stupore,
vide che all’improvviso

cominciava a accorciarsi
e a scoprire che il viso
era vicino ai piedi
tanto era piccolina.

Ciò significa, vedi,
che l’ingenua bambina
era rimpicciolita
come in un telescopio.

Vistasi ormai piccina,
decise incuriosita
d’entrare, di lì a poco,
per una porticina

che dava su un gran parco
degno di una regina,
con piante, fiori, siepi
belle oltre ogni dire,

un giardino di fate,
un immenso cortile,
dove la fantasia
era un arcobaleno

colorato di sogni,
di fiabe e di mistero.
Tuttavia, quando Alice
si provò ad afferrare

la minuscola chiave
che l’era parso facile
fare girare dentro
la strana serratura,

cielo, che avvilimento!
che penosa sciagura!
Era ormai così piccola
che, ritornando indietro,

non poté più raggiungere
la tavola di vetro.
Cominciò allora a piangere
per quella strana jella,

e le lacrime a spargere
come una fontanella.
Poi pensò di assaggiare
un buffo pasticcino,

e si rimise a crescere
come il fusto di un pino.
E cresci cresci cresci,
cresci sempre di più,

fruga in cerca dei piedi
e non li trova più.
Si era così allungata
che poteva a Natale

mandare alle sue scarpe
dei graziosi regali.
Mentre stava pensando
quella cosa curiosa,

sente un rumor di passi
e vede che qualcosa
le si sta avvicinando
più candido di un giglio.

Sgrana gli occhi, ricorda:
Ma sicuro! E’ il coniglio
che l’aveva incrociata
stesa all’ombra del salice

rapido, frettoloso,
brusco, scattante, agile
e ora, senza nemmeno
degnarla di un saluto,

le passava davanti
ancora più scorbutico
ripetendo fra sé
come una macchinetta:

“E’ tardi! E’ tardi! E’ tardi!
che dirà la Duchessa?”.

E mentre se ne andava
da gran maleducato,
lasciò cadere in terra
non facendoci caso

un bel paio di guanti
bianchi come la luna
e un ventaglio che certo
valeva una fortuna.

Distrattamente Alice
s’infila un guanto candido
e s’accorge felice
che proprio adesso, quando

si credeva perduta
sta cambiando di nuovo
e ritorna piccina
come il guscio di un uovo.

Frattanto le sue lacrime,
salate come il mare,
hanno formato un lago
dove si può nuotare.

E mentre si sommerge
nel suo pianto dirotto,
giungono un Topo, un Dodo,
uno strano Aquilotto,

un Pappagallo, un’Anatra,
tanti buffi animali
tutti bagnati fradici
tutti a mollo nel “mare”,

che sconsolati cercano
di asciugarsi le piume,
i peletti, le penne,
le ali, le code e alcuni

discutono con foga
sul modo di riuscire
a cavarsi d’impiccio
senza poi starnutire.

Finché il dodo propone
una cosa assai strana,
una “corsa confusa”,
una specie di gara

dove ciascuno parte
quando gli pare e piace
ed egli viene eletto
a giudice di pace.

Quando poi si conclude
quella gara assai buffa
e ogni bestiola n’esce
un po’ stanca ma asciutta,

gli altri pregano Alice
di dare ai vincitori
(ch’eran poi tutti quanti),
dei premi di valore.

Lei fruga nelle tasche
e trova dei confetti
che divide fra quegli
sparuti animaletti.

E poi premia se stessa,
di un grazioso ditale
mentre il pavido Topo
resta lì ad intonare

una lunga canzone
passata ormai di moda,
serpeggiante, sinuosa,
senza capo né coda.

Quando infine partirono,
Alice cominciò
a piangere di nuovo
finché a un tratto notò

che il coniglio, che prima
cercava la Duchessa,
le passava vicino
diretto a una casetta

dicendole collerico:
“Marianna! I guanti bianchi!
il mio ventaglio! Corri!
corri dentro a cercarli!”

“Mi avrà forse scambiato
per la sua cameriera?”
pensò Alice in cuor suo
ma decise che era

pronta a stare a quel gioco
ed entrò nella casa
dove trovò di nuovo
la stessa bottiglietta

che aveva visto prima,
ma priva d’etichetta.
Impaziente d’uscire
da quel vicolo cieco

la manda giù d’un sorso
e, come per miracolo,
si trova con la testa
a sfiorare il soffitto

tanto s’era allungata,
per cui, col cuore afflitto,
diceva disperata:
“Ahimé! E adesso che faccio?

Non posso neanche muovermi.
Sono in un bell’impiccio.
Crolleranno gli intonaci!
Eppoi, guarda, quel tizio

sta tornando, il Coniglio…
mentre io, qui, mi allungo.
Chissà a cosa somiglio?
Forse a un immenso fungo…

E quando quel dispotico
prova ad aprire il vetro
della finestra, subito
ci mette il piede dietro.

Frattanto le giungevano
dei rumori confusi:
calci e pugni sferrati
contro le porte chiuse.

S’ode una gran caciara,
tutti parlano insieme,
chi s’arrabbia, chi s’agita,
chi protesta, chi preme

per forzare il portone
finché Alice indovina
che per farli tacere
si è deciso, in consiglio,

di far scendere un tale
dal buco del comignolo,
perciò senza pensarci
su neppure un momento

sferra un calcio potente
verso quel poveretto
che viene giù, e riecco
che riprende il rumore:

“Aiutatelo, è Bill!”
“L’hanno sparato fuori!”
“Alzategli la testa!”
“Dategli del liquore!”

E ancor più forte grida
il solito Coniglio:
“Incendiate alla casa!”
poi, di nuovo, un consiglio

e di colpo una fitta
grandinata di sassi
si rovescia sui vetri:
quell’armata di pazzi

dava l’assalto a Alice
come fose un fortino
sul punto di cadere,
ed ecco, un sassolino

la colpisce sul viso,
le fa perfino male.
“Adesso basta!” dice
la bimba. Ma che vale

gridare in quel frangente?
Alice è triste e sola,
e, mentre esclama: “Ahimé!”,
la folle sassaiola

si trasforma in un mucchio
di paste e di bigné.
Per gola o per paura,
per entrambe, cioè,

manda giù un pasticcino
in un solo boccone.
e di colpo ritorna
piccola come un fiore:

in un attimo è fuori,
vede la comitiva
radunata sul prato,
s’avvicina furtiva,

e nel mezzo c’è Bill
sorretto dagli amici.
E’ una lucertolina,
quel povero infelice.

“Ora,”dice a se stessa,
devo tornare grande
se voglio seguitare
con le mie proprie gambe.”

Vede un fungo assai strambo
sul cui tetto c’è un bruco
che prima ancora di
rivolgerle il saluto

Le chiede: “E tu chi sei?”
che razza d’impudenza!
far domande del genere
a chi più non rammenta

la propria identità.
Mi avesse chiesto almeno:
“Scusi, che tempo fa?”
Ma quel bruco azzurrino

che sedeva bel bello
nel centro del “cappello”,
con la pipa fra i denti
era proprio insolente,

questa è la verità!
“Signor Bruco,” fa Alice
mantenendo la calma,
“non so che dirle, sono

“prima bassa, poi alta
come in un telescopio,
poi di nuovo piccina,
e poi tutto da capo

“cresco come una spiga.
Pertanto mi permetta
di dirle che al momento,
con mio grande sgomento,

“io non so più chi sono.
Desolata, spiacente,
le domando perdono
se mi ha trovato brusca

pochi minuti fa.”
Il bruco le rispose:
“E con questo che fa?”
Poi indicando il cappello

del fungo che da un’ora
fungeva da poltrona,
le disse: “Guarda qua:
da un lato piccolina,

dall’altro grandicella.”
“Di che cosa?” fa Alice.
“Del fungo.” E si dilegua.
Rimasta sola, allora

la povera infelice,
stacca un pezzo di fungo,
lo morde e l’inghiottisce.
E d’un tratto s’accorge

che il mento, repentino,
s’era attaccato ai piedi
come in un disegnino.
“Povera me!” sospira,

“quello era il lato destro
che fa accorciare, e dunque
devo mordere questo.”
E dà un morso al pezzetto

che stringeva impaurita
nella mano sinistra.
Che volete, è la vita…
Ma ahimé, adesso il suo collo

s’allungava talmente
che somigliava quasi
a uno strano serpente.
E difatti un piccione

che passava di là
la guardò diffidente,
e disse secco: “Olà!
ti conosco, feroce

“ladro di uova fresche.
Tu sei proprio un serpente,
una serpe! Una serpe!
che ha per abitudine

“di rubare le uova
che l’ignaro piccione
lascia dentro la cova.”
“Si sbaglia! “ dice Alice,

“sono una bimba, e invece,
le uova me le mangio
fritte con sale e pepe.”
“Quand’è così,” ribatte

quel pennuto ostinato:
“ Addio!” Ed in un momento
si era già dileguato.
Alice, che davvero

somigliava a un serpente
con quel collo lunghissimo
che non serviva a niente,
decide di addentare

tutto il fungo stregato,
prima un lato e poi l’altro,
e ritorna allo stato
di bambina normale

e così, camminando
e pensando ai capricci
della propria statura,
passo passo si trova

persa in una radura,
dove al centro sorgeva
una strana casetta
non più alta di un metro,

tuttavia, che disdetta!
si rende conto adesso
che non ci potrà entrare
se dei pezzi del destro

non si mette a mangiare.
Ed eccola tornata
nuovamente piccina;
soddisfatta, s’appressa

di nuovo alla casina
da dove le giungeva
un rumore assordante
di piatti rotti, grida

starnuti di poppante.
Mentre stava pensando
se era il caso di entrare,
un lacché alquanto strambo

vide a un tratto arrivare
che, sebbene indossasse
una livrea di classe,
più che ad un maggiordomo

somigliava ad un pesce.
Quel pesce impomatato
bussò forte al portone
e gli venne ad aprire,

anche lui in parruccone
e livrea, un portinaio
che si sarebbe detto,
per la testa che aveva,

un ranocchio perfetto.
Il cameriere-pesce
tirò fuori una lettera
e la tese al ranocchio

dicendo: “La duchessa
è invitata quest’oggi
a giocare alla palla
dalla nostra Regina.

Corri subito a dargliela!”
Mentre quelli parlavano,
Alice, poverina,
pensava a come entrare

da quella porticina,
e chiese al cameriere
che sembrava una rana
se facesse il piacere

di annunciarla alla dama,
ma il compìto animale
continuava a ripetere:
“Fa quello che ti pare!”

Era vano pretendere
che le desse una mano,
ed allora la bimba
pensò di farsi animo,

e per non darla vinta
al postino e al lacché,
spinse la porticina
e, che è che non è,

sbucò in una cucina
tutta piena di fumo
dove si starnutiva
a più non posso, e prima

vide che su una seggiola
sedeva la Duchessa
che cullava un bambino
quasi come un’ossessa;

in un angolo, poi,
seduta su un fornello,
una cuoca che gira
qualcosa con un mestolo.

E si sentiva intorno
un’odore di zuppa
che sapeva di pepe
e sbollentava tutta.

“Quanto pepe!” si disse
Alice sbigottita.
“Qui tutti starnutiscono!
Non ne sono stupita!”

E si mise a guardare
l’eccentrica duchessa
che cullava cullava
con estrema violenza

un poppante che ormai,
anche lui tutto rosso,
starnutiva, scalciava,
strillava a più non posso

senza chetarsi mai.
“Oh, che razza d’inferno!
Quel povero bambino
Sta senz’altro morendo!”

pensò Alice ascoltando
la pepata caciara
che divenne ancor peggio
allorché la massara

accaldata e fumante
incominciò a lanciare
piatti, coperchi, mestoli
in faccia alla Duchessa

che scuoteva il poppante
senza alcuna clemenza,
“Maialino!” gridando,
“Smettila di frignare!

Bada che te le do!
Ninnaò! Ninnaò!”
Ma il fatto più incredibile
fu che a un tratto lanciò

a mò di dirigibile
il fagottino, oibò,
nelle braccia di Alice
dicendo: “Se ti piace,

puoi ninnarmelo un po’!”
La povera infelice
così si ritrovò
il chiassoso poppante

tra le mani. Però,
che grande seccatura!
e che pena, oltretutto,
che costui sia lanciato

come fosse un prosciutto!”
E fu allora che vide
che in cucina c’è anche
un bel Gatto di Chechire

con un sorriso grande
come tutta la faccia.
“Cosa vuoi che ti faccia?”
sembrava che dicesse

quello strano felino
mentre Alice cullava
il bimbo maialino.
E in maialino infatti

s’era mutato il pupo
tanto che, appena usciti
da quel luogo sì cupo,
incominciò a grugnire

e a agitare le zampe,
poi saltellò lontano
felice e gongolante.
Mentre la ragazzina

ripensava a quel matto
di un bambino porcello,
vide di nuovo il gatto
che, seduto su un ramo,

sfoderava un sorriso
alto come un uccello,
bianco come un narciso.
“Oh, mio gentil gattino!”

gli si rivolse Alice
con grande cortesia.
“Sono così infelice!
“Non potresti indicarmi

la strada da imboccare?”
“Dipende” fece il gatto
seguitando a ghignare.
“Se difatti vuoi andare

“in un punto preciso,
io ti posso indicare
soltanto il mio sorriso.
Ma se invece vuoi prendere

qualunque direzione,
sono disposto a darti
un’altra indicazione.”
“Ogni strada va bene!”

rispose la fanciulla,
“purché non mi conduca
di fronte a un’altra culla!”
Disse allora il gattino:

“Guarda, qui alla mia destra
c’è il Cappellaio Matto
e invece alla sinistra
troverai senza fallo

“la Lepre Marzolina.
Sono tutti e due matti,
perciò scegli la via
che più ti piace. Adesso

devo andarmene via.
Oggi si gioca a palla
dalla regina, dunque
ci rivedremo lì.”

E, ciò detto, sparì.
Dopo un poco rieccolo
nuovamente sul ramo
e le chiede: “Del bimbo,

per finire, che è stato?”
“Si è mutato in maiale,”
risponde la bambina.
Dice il gatto: “ E’ normale,

in siffatta cucina.”
E sparisce di nuovo
per poi tornare a pendere
come prima, dall’alto.

Infine, lentamente,
ricomincia a svanire
partendo dal codino,
finché rimane solo

un gran ghigno felino
che fluttuava nell’aria
staccato dalla faccia
anche quando del gatto

non restò alcuna traccia.
“Perbacco!” esclama Alice.
“Non so più che pensare!
“Un gatto senza ghigno

si può sempre trovare,
ma un ghigno senza gatto
questa poi, è da non credere!”
Nel frattempo era giunta

a casa della Lepre,
e, a scanso di pericoli,
dalla sinistra prese
un pezzetto di fungo

e si mise a mangiarlo:
crebbe di mezzo metro
prima ancor d’ingoiarlo.
Finché, all’ombra di un albero

tutto pieno di foglie,
vede che c’è una tavola
coperta di leccornie,
imbandita, pulita,

già pronta per il tè,
apparecchiata, è chiaro,
solamente per tre.
Il Cappellaio Matto,

la Lepre Marzolina
e un Ghiro addormentato
era la comitiva
lì riunita a servirsi

il tè pomeridiano
ma, pensandoci bene,
pareva alquanto strano
che, sebbene la mensa

sembrasse un transatlantico,
quellì lì se ne stessero
tutti stretti in un angolo.
“Qui non c’è posto!” gridano

alla nuova venuta.
E nessuno l’invita
e nessuno l’aiuta
a servirsi una tazza

di quel tè strampalato.
Il Cappellaio è proprio
un gran maleducato.
La Lepre e il Cappellaio

appoggiavano i piedi
sul Ghiro che dormiva
e imburravano seri
fette di pan tostato.

Burro, burro e altro burro:
burro sulle tartine,
sui coltelli, i vestiti,
c’è burro a non finire

pure sulle molliche,
ed un pezzo di burro
di prima qualità
è servito a correggere

il tempo che non va:
un tempo assai volubile
che s’offende per niente;
“E il tempo, infatti, cara,

“non è affatto paziente
come lo si dà a intendere,
ad adulti e bambini.
Se lo si vuole battere,

“ad esempio, cantando
o declamando versi,
lui subito con sgarbo
ti si rivolta contro,

ti sfugge dalla mano,
si mette a tirar calci
come un cavallo brado,”
spiega sorbendo il té

lo strano cappellaro.
“E difatti con me
è stato assai villano,
“allorché, impermalito

da un mio gentil sonetto
che io so a menadito
e che comincia, ecco…
“Oh, pipistrello ardito,

“entra nel mio mantello…”
mi si fece nemico
davanti a Sua Maestà
lasciandomi inchiodato

“a quest’orario qua,
l’ora del té. Difatti,
dal mattino alla sera,
sono sempre le sei

per me e la mia teiera.”
Frattanto il buffo ghiro
seguitava a dormire
e per tenerlo sveglio,

(c’era da inorridire!)
bisognava versargli
tè bollente sul naso.
Menomale che almeno

non era raffreddato…
Alice, innervosita
da quella tiritera
inconcludente, infine

s’era seccata, s’era
anche un po’ offesa con
quei tre maleducati
che prendevano sempre

il tè senza invitati.
“Non metterò più piede,”
disse, “in questo postaccio.
Tolgo il disturbo e tolgo

anche voi dall’impaccio!”
Ciò detto se ne andò
lasciandoli seduti,
il ghiro che russava

e gli altri due, cocciuti
a discutere ancora
dei dispetti del tempo,
a ripetere in coro

l’aria del pipistrello.
Dopo aver camminato,
per un po’ senza mèta,
si ritrovò di nuovo

nella sala obsoleta
col tavolo di vetro
imbandito con quelle
misteriose boccette

con o senza etichette.
“Ci penso io,” si disse.
Prese la chiave d’oro,
aprì la porticina,

rose come un castoro
il fungo col potere
di cambiar la statura,
e, di nuovo piccina,

girò la serratura.
Così uscì finalmente
nel giardino incantato,
scintillante di fiori,

di zampilli, solcato
da farfalle bellissime
dai copiosi colori,
d’erbette tenerissime,

dei più strani tesori
che si possa trovare.
E vide che all’entrata
c’era un grande roseto

che pareva una fata
delle nevi, da quanto
eran bianche le rose,
con tre tizi muniti

di pennelli, che forse
erano i giardinieri
dello splendido parco,
intenti a verniciare

di rosso ciò che è bianco.
Uno di nome Due,
l’altro di nome Cinque,
non fanno che discutere

sul modo di dipingere.
E quando infine Alice
chiede una spiegazione,
rispose Due: “ Vedete,

“la nostra situazione
è alquanto imbarazzante
per non dire rischiosa,
dato che la Regina,

“ch’è così capricciosa,
ci aveva comandato
di piantare quaggiù
soltanto rose rosse,

che volete di più?
“Rose non ce ne sono,
rosse, intendiamo dire,
giacché noi, per errore,

“o distrazione, infine,
per pura dappocaggine
abbiam piantato invece
soltanto rose candide

“che non erano lecite.
E adesso la Regina,
se venisse a saperlo,
ci taglierebbe insieme

la testa col cappello.”
Mentre quelli parlavano,
si sentì un gran baccano
ed ecco farsi avanti

un corteo molto strano
fatto di carte e cifre,
di picche e cuoricini,
di guerrieri del re,

di fanti e principini
che avanzavano tutti
in parata solenne
accompagnati, è ovvio,

dal Coniglio di sempre.
Poi finalmente incedono,
adornati di cuori,
il Re con la Regina

e tutti i servitori.
“Chi è costei?” grida a un tratto
la sovrana severa,
rivolgendosi a Alice

e poi, sempre più nera,
“E che fanno questi altri?”
intende i giardinieri.
“Non lo so, “ dice Alice.

“Che ne posso sapere?”
Colpita dall’ardore
di cotanta impudenza,
la Regina di Cuori,

perdendo la pazienza,
grida ai suoi paladini:
“Suvvia, decapitatela!”
ch’era un modo un po’ eccentrico

di ordinare: “Arestatela!”
La natura l’aveva
fatta così, dispotica;
e il marito, difatti,

la trovava antipatica,
e se non fosse stato
ch’era di sangue blu,
se ne sarebbe andato

lasciandola laggiù,
brutta, arcigna, zitella,
fra i suoi cuori arroganti,
ossequiata dai sudditi,

ma senza spasimanti.
“Calma,” lui dice, “cara:
è solo una bambina.”
Ed allora scattando

rabbiosa, la Regina
grida indicando i numeri:
“Voltate questi qua!”
Il fante esegue gli ordini.

E lei: “Che fate qua?”
“Noi…” prende a dire Due,
ossequioso e tremante,
e lei precipitosa,

“Ho capito, furfanti!”
“Tagliate loro il capo!”
fa, rivolta ai soldati.
Poveri Cinque e Due!

Sono ormai destinati
a perdere la testa
non certo per amore,
ma perché lo ha deciso

la Regina di Cuori.
Allora, impietosita,
Alice li fa entrare
in un vaso di fiori,

poi, tutta naturale,
spiega di aver già fatto
eseguir la sentenza
a quel donnone sempre

a corto di pazienza.
Frattanto, mentre assiste
a tante atrocità,
con suo grande stupore

vede passar di là
il Coniglio a lei noto
che, guardingo le dice
di fare più attenzione

a come parla. Alice
gli chiede allora dove
fosse mai la Duchessa.
“Sarà decapitata…”

sussurra con prudenza
il Coniglio, e le spiega
che il motivo di quella
condanna a morte è

che l’inutile balia
tirò, chissà perché,
le orecchie alle sovrana
Quest’ultima, frattanto,

“Ai vostri posti!” grida,
e ad Alice, con sgarbo,
“Vuoi giocare con me?
Prendi subito posto

ma non vincere, neh?”
Le bocce erano proprio
dei veri porcospini
per non dir che le mazze,

sparse tra i cuoricini,
somigliavano invece
a strani fenicotteri,
di certo illanguiditi

da tutte quelle botte
che, al toccare la palla,
voltavano la testa
sbadigliando con calma,

senza nessuna fretta.
Veramente ridicolo!
E per giunta i soldati,
con le mani ed i piedi

ben piantati ai due lati
presenziavano solo,
pena la testa mozza,
per servire da porte,

una partita pazza
e priva di criterio:
non ce n’era uno solo
che facesse sul serio.

“Tagliategli la testa!”
gridava la Regina
che nel gioco, si sa,
era poco sportiva,

se coglieva qualcuno
a commettere un fallo
o, peggio ancora, un punto.
E il porcospino, intanto,

srotolatosi tutto,
se n’era andato a spasso
proprio mentre arrivava
anche il turno di Alice.

Che passatempo strambo!
Che partita infelice!
Invece di giocare
ci si prendeva a botte.

Era buffo vedere
quei pigri fenicotteri
svolazzare e contorcersi
colpendo la pallina.

E, in mezzo a quel trambusto,
l’urlo della Regina
che emetteva a ogni istante
la sentenza di morte

indicando ora questo
ora quel concorrente.
Mentre il gioco infuriava
via via sempre più pazzo,

all’improvviso Alice
vide apparire il Gatto.
Non era, a onor del vero,
un gatto definito:

c’era solo il sorriso
smagliante di mistero,
e poi, poco per volta,
si disegnò la testa,

in quanto a tutto il resto,
però, vattela a pesca!
“Come procede il gioco?”
chiese il gatto incompleto.

“So di certo che è poco
ordinato, ma lieto…”
E mentre Alice sta
raccontandogli tutti

quegli imbrogli incredibili
quelle botte, quei trucchi,
ecco arrivare il Re
con fare minaccioso

che scorgendolo esclama:
“Questo gatto mi è odioso!
“Non mi piace per nulla
che guardi proprio me.”

Dice Alice: “Ma un gatto
può guardare anche un Re!”
La Regina interviene:
“Tagliategli la testa!”

E il marito: “Ecco, cara,
perché, sai, mi molesta
con quel suo sguardo che
galleggia senza corpo…

Suvvia, fallo per me:
voglio vederlo morto!”
Sopraggiunge il carnefice
e subito comincia

una gran discussione,
se si possa dar vinta
questa bizza al sovrano
giacché, sostiene il boia,

come posso tagliare
una testa che vola
senza il corpo attaccato?
E’ senz’altro un reato

che non ho mai commesso
e non voglio commettere
adesso, alla mia età.”
Controbatte il sovrano:

“E che importanza ha?”
Alice suggerisce
di chiamar la Duchessa
giacché quell’infelice

apparteneva ad essa.
“La Duchessa è in prigione!”
replica la Regina,
e nel frattempo il gatto

si dissolve in sordina.
Come Dio vuole, alfine
giunge la condannata,
premurosa, cordiale,

è proprio trasformata.
“Forse,” si dice Alice,
“quella zuppa pepata,
è la ragion per cui

era così antipatica.”
Ora invece si ostina
a ragionar di tutto,
sillogismi, morale,

frasi senza costrutto…
Pensa Alice: “se un giorno
mangerò uno stufato,
lo assaggerò piuttosto

dolciastro che pepato.”
La Duchessa è assai brutta,
con il mento appuntito
che muove a destra e a manca
come se fosse un dito.

Nel veder comparire
di nuovo la Regina,
le fa una riverenza
e, come per magia,

si dissolve nel nulla.
La Regina fa a Alice:
“ Ti presento il Grifone,
io ritorno ad assistere

alle mie esecuzioni.”
E quello le presenta
la Finta Tartaruga,
una povera bestia

mollemente seduta
su una roccia, con l’aria
afflitta e malinconica,
gli occhi pieni di lacrime,

tutt’altro che laconica
nel modo di parlare
che, rivolta alla bimba,
“Io,” comincia a rilento”

“Sono nata per finta.
Quand’ero piccolina,
“studiavo matematica,
storia, bucato e musica,

“letteratura pratica,
frittura sulla tela
e infine pesce affresco
e, se non vado errata…

“la mia insegnante, ecco
era una vecchia anguilla.
Ma orsù, ti piacerebbe
vedere la quadriglia

delle aragoste, cara?”
“Sì! Sì!” esclama il Grifone.
“Prima di tutto, bada,
ci si deve disporre

“In una lunga fila
sulla riva del mare…”
“Due file!” l’interrompe
il mancato animale.

“Poi,” continua il Grifone,
“Ci si prende per dama
ciascuno un’aragosta.
Si fan due passi senza

timore d’annegare…”
“Prima la riverenza!”
salta su nuovamente
la tartaruga e dopo…”

“Ci si scambian le dame…”
fa il Grifone nervoso
d’esser stato interrotto
E quell’altra: “Ma dico,

e le foche? E i merluzzi?”
“Non ho ancora finito…”
scatta allora l’amico
non sopportando più

di conversare a buca.
“Ma non hai precisato!”
grida la tartaruga.
“Si fa un bel passo indietro,

ci s’inchina con grazia…”
E il Grifone: “Mi spiego,
se Sua Grazia mi lascia,
ecco, venire al punto..”

“Come?” urla l’animale,
“Stai facendo un riassunto
del tutto irrazionale.
E poi dovresti aggiungere…”
Ma lui, secco,: “Si gettano

al mare le aragoste!”
“Oh, che razza d’inetto!”
l’interrompe lei ancora.
“Non conosci il balletto…”

Ma la bambina, allora,
per cambiare discorso:
“ Volete che vi canti
qualcosa che conosco?”

E mentre gli altri ballano
calpestandole i piedi,
lei comincia a intonare,
pur di farli star cheti,

una strana canzone
che parla di aragoste,
di merluzzi, naselli,
cozze appese alle rocce,

ma non riesce a darle
un senso razionale.
Anzi, ad esser sinceri,
la canta proprio male.

Tutto le sembra illogico,
stupido e senza fine,
sinché la tartaruga
desolata decide

d’intonar la canzone
tragica della zuppa,
e rimane da sola,
malinconica, zuppa

delle sue stesse lacrime
cantando a perdifiato:
“Zuppa, mia cara zuppa,
perché ti ho abbandonato?”

La lasciano così,
disgraziato animale,
e a un tratto si ritrovano
dentro ad un tribunale

con il Re e la Regina
impettiti sui troni
e un fante incatenato
fra quadri, picche e cuori.

La giuria era composta
da un mucchio di bestiole
delle specie più strambe
che scrivevan parole,

ahimé, prive di logica,
su di una lavagnetta
per affrettarsi poi
a cancellarle in fretta.

C’era pure il Coniglio
che fungeva da araldo,
e il giudice era il Re
che portava spavaldo

un parruccone bianco
con sopra la corona,
cosa alquanto ridicola,
pensò Alice, e anche scomoda.

“Che si legga l’accusa!”
si rivolse al Coniglio
quel sovrano buffissimo
e, subito, l’araldo:

“Il fante qui presente,
l’imputato, cioè,
ha commesso il reato
di rubare testé

“le tartine sfornate
dalla nostra Regina!”
“Venga qui il primo teste!”
grida il giudice e, prima

che la giuria abbia il tempo
di registrare il fatto,
ecco che si presenta
il Cappellaio Matto.

Disperato, tremante,
con la tazza di tè
da cui mai si separa
seguita a dire, “Ahimé,

io non ne so un bel nulla:
mangiavo pane e burro
finché senza motivo,
ecco, questo citrullo…”

e chiama in causa il Ghiro
che continua a dormire,
“Mi ha detto… come ha detto?…
mi ha detto…” “Vuol finire

il testimone o no?”
grida il Re spazientito.
ma il Cappellaio matto
è troppo intimidito.

“Gli si tagli la testa!”
proclama la Regina,
agitando lo scettro,
ma quello scappa prima

che le guardie reali
lo possano afferrare
e così, poco dopo,
appare in tribunale

un’altra testimone
che, se non lo sapete,
era proprio la cuoca
che amava tanto il pepe.

E difatti, comparsa
che fu a testimoniare,
l’aula, i banchi, la Corte
tutto prese a echeggiare

di starnuti terribili
forti come tromboni,
mentre il giudice urlava:
“La terza testimone!”

E fu allora che Alice,
con suo gran disappunto,
scoprì che, meraviglia!
era giunto il suo turno.

Ma inesplicabilmente
capitò che, frattanto,
era cresciuta tanto
da incutere sgomento

al giudice e ai giurati,
a tutti gli altri e pure,
allo stesso imputato,
giacché, in altre parole,

cominciava a riprendere
la sua antica statura
e a un tratto balzò in piedi
con una tale furia

che i poveri giurati
caddero a testa in giù.
E il Re allora: “Con questo
non intendiamo più

seguitare il processo!
Si rimettano a posto!”
Alice eseguì l’ordine,
ma non c’era più posto

per lei in quel tribunale,
e in oltre quando gli occhi
dei giurati tornarono
ai loro scarabocchi,

uno di quelli, Bill,
l’infelice lucertola
venne dimenticato
con il sangue alla testa

agitando il codino,
il musetto all’ingiù:
somigliava ad un mestolo
confitto nel ragù.

Frattanto ecco arrivare
nuovamente il Coniglio
che, mezzo trafelato,
prende a leggere un foglio

stracolmo di parole
prive di senso logico,
ma che parvero prove
per scoprire l’imbroglio

del furto di tartine
di cui era accusato
il buon Fante di Cuori,
per sua sventura nato

come carta da gioco
e che nulla sapeva
delle torte, del pepe,
e di tutta la bega.

“Sono capi d’accusa!”
saltò a gridare il re
“che non la danno a bere
a un tipo come me!”

“Pertanto la giuria
emetta la sentenza.”
“No!” scattò la regina
che non viveva senza

contraddire il marito.
“Venga prima il verdetto!”
Ma a questo punto Alice
ribatté con dispetto:

“Di tutte queste frottole
non si capisce niente!”
“Decapitate subito
codesta impertinente!”

sentenziò la dispotica,
“questa specie di serpe
che s’accorcia e s’allunga
come in un telescopio

e per di più mi parla
con quel fare spocchioso!”
Ma Alice, ormai cosciente
dalla propria statura,

gridò a tutti i presenti:
“Non mi fate paura!
Dopo tutto non siete
che un mazzetto di carte!”

Ed ecco, proprio allora
gli assi, le donne, i fanti
presero a svolazzare
intorno alla sua testa

e, ancor prima di muoversi,
lei si ritrovò desta
all’ombra di quel salice
dove forse, chissà,

s’erano mescolati
il sogno e la realtà.
Svegliandosi ebbe voglia
di andare a far merenda,

“Che ora è?” domandò
stordita alla sorella
che osservò sorridendo:
“Quanto hai dormito, Alice!

Vieni a prendere il té!”
Ma il libro non ci dice
se quella storia fosse
fatta per l’infelice

lettore scrupoloso
o piuttosto un penoso
tragitto a testa in giù
che però, in questo modo,

ci piace anche di più.

Non si poteva muovere
Da quant’era cresciuta.

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