Dono di Natale

Ecco il bellissimo racconto di Zia Mariù (24 ottobre 2006)

Non ho bisogno di chiudere gli occhi per rincorrere i bei tempi trascorsi.
I miei occhi si sono spenti tanti anni fa e di quei terribili momenti non mi è rimasto che un labile ricordo.
Insegnavo in una scuola elementare della Maremma Grossetana, la guerra era appena finita e nell’aria e nella gente si riconosceva la voglia di rinascita.
Quei periodi bui della nostra storia che avevano cambiato la vita di tutti.
Il mio paese, nato vicino al mare, era abitato da poche anime, gente contadina, pescatori.
Mi fu affidata una cattedra a pochi chilometri da casa.
C’erano certi giorni in cui lo scirocco fischiante spingeva le onde del mare oltre la battigia e io, ammirando lo spettacolo. Inforcavo la mia bici e mi dirigevo a scuola, dai miei ragazzi.
“Figli di Maremma” scampati alla guerra, alla fame, alla miseria e all’ingiustizia.
Ricordo ancora entrare in classe una giovane donna, alta, era avvolta in un cappotto e una sciarpa le copriva la testa, aveva lineamenti regolari, e i capelli neri corvini le scendevano spettinati sulla fronte, pian piano si sbottonò il cappotto, mi accorsi che aspettava un bambino.
Da dietro scorsi una faccina rosa, fresca, era Rosetta poi ancora un altra testolina, ripiegata da un lato, somigliante, anche lui spettinato, con la manica si pulì il naso umido, tirò su e mi sorrise.
Era Antonio, si capiva che erano gemelli.
Avranno avuto circa 10 anni.
Notai che i tre non calzavano scarpe, ma zoccoli legati ai piedi con un sottile fil di ferro.
La giovane domandò il permesso di entrare ed io acconsentendo con il gesto del capo li invitai ad avvicinarsi.
Lei un pò impacciata mi accarezzò le mani rinfrescandomele.
Erano sfollati dal Polesine, come tante altre famiglie d’altronde, ed erano in cerca di lavoro.
Avevano trovato rifugio presso le capanne lungo il canale, vicino alle bilance dei pescatori di anguille.
Era il primo giorno di scuola e piano piano la mia pluriclasse si riempì.
Pochi di loro sapevano scrivere, così cominciammo a rinnovare quei quaderni dalla foderina nera e dal bordo rosso con delle aste, prima dritte nel quadretto e poi in diagonale e poi…
Poi e poi… dopo circa un mese eravamo già alle vocali.
In quella classe echeggiava una sola “a”, un solo “o” un solo “u”, tutti insieme, un’unica voce.
Alle otto e trenta cominciavano le lezioni, in quella classe dove una vecchia stufa scoppiettava vivace.
Ogni mattino ognuno portava un pezzo di legno che aveva trovato nel tragitto che li conduceva a scuola, e così potevamo scaldare la piccola aula nascosta nella penombra degli alberi.
Dai vetri trillanti ascoltavamo il rumore del mare, il sibilare del vento che filtrava dagli infissi delle finestre tremolanti.
Un giorno arrivò un giovane pescatore, mi porse delle anguille e mi disse di essere il fratello maggiore di Rosetta, si chiamava Lorenzo.
Avrà avuto quindici anni, si vedeva dalla poca peluria incolta sul viso e dalla voce che ancora non era giunta alla sua maturità.
Aveva un braccio fasciato e gli faceva male, gli chiesi cosa avesse fatto, mi rispose abbassando gli occhi timidi che era stato vaccinato contro il vaiolo, e ammiccò un sorriso a fior di labbra.
Con il padre avevano trovato lavoro alla peschiera e la mamma invece era a casa che accudiva il nuovo nato.
Accennò che a poco avrebbero comprato una loro chiatta, e questo mi fece presupporre che le cose gli stavano andando meglio.
Sapevo però che il padre era stato sorpreso a pescare e cacciare di frodo, e che la guardia venatoria una volta era stata clemente con lui.
Conoscendo la sua situazione familiare, la guardia capì che si barcamenavano fra mille privazioni, e sapeva pure che effetti devastanti provocava la miseria sulla crescita dei figli.
Di buon grado accettai le anguille e ringraziai. Passarono i mesi, era sempre più freddo in quella terra di Maremma al limite col mar, un freddo che sembrava bucasse la pelle tanto era rigido.
Al mattino, mentre aspettavamo il suono della campanella, sul pianerottolo della scuola, notavamo che dalle nostre bocche usciva un vapore bianco che di proposito emettevamo e ci divertivamo a soffiarlo, ma una volta in quell’aula, al caldo, i bambini apprendevano e giocavano spensierati.
Per San Martino decidemmo di fare un ricchissimo castagnaccio: con i pinoli, le noci, l’ uvetta e il rosmarino, ed improvvisammo una festicciola.
Ogni bambino portò quello che poteva e quel giorno a colazione mangiammo castagnaccio, finocchi e pane arrostito.
Vorrei ancora sentire quel sapore nella mia bocca, quel sapore di umiltà di tempo passato.
Arrivò Natale, un Natale di pace.
Decidemmo con i miei bimbi che avremmo fatto un albero bellissimo, una festa indimenticabile, ed anche la foto ricordo.
Cominciammo la ricerca del favoloso albero nella macchia vicina, cercando di trovare quello che poteva assolvere le nostre aspettative.
Nella macchia che sfidava il mare, piante forti e pungenti, rare orchidee spontanee, arbusti coriacei, zefiro profumato di camomilla marina, aria dall’odore acre di resina che dopo la pioggia si sprigionava e si mescolava con la aspre zolle di Maremma.
Tra varie specie di alberi ne tagliammo uno di un verde brillante, era rigoglioso, non eccessivamente grande ma abbastanza da coprire un angolo vuoto della nostra aula.
Lo caricammo sopra di una bicicletta e facendo attenzione di non rovinare i rami fragili.
Ci incamminammo verso la nostra scuola.
I piccoli operai badarono a riempire un secchio di sabbia guarnendolo poi con del muschio, e quando venne il momento di alzarlo tutti insieme acclamarono “evviva, evviva!”.
La gioia era sprizzante, pura.
Decidemmo come sempre, che ognuno avrebbe portato un qualche cosa per guarnire il nostro albero, e nei giorni a seguire arrivarono dei pacchettini colorati, dei pupazzetti fatti con la lana, delle spighe seccate e colorate, del cotone per fare fiocchi di neve, dei gusci di noce.
Arrivò il giorno che l’albero era finito, alto, scintillante.
Cominciò la festa, tutti erano presenti, spensierati, tanti i genitori, i nonni le zie, tutti a scartar doni.
Ma rimase una pacchetto sotto quell’albero straordinario, un cartoccio mal confezionato, ma chiuso con un bel filo intrecciato di lana rossa.
Il pacchetto, irregolare e leggero, era rimasto lì e tra gli sguardi incuriositi dei presenti si fece avanti Rosetta che me lo porse.
L’aprii, e dentro c’erano piccole orchidee spontanee.
Era il mio dono di Natale mi disse la piccola un pò emozionata.
Mi commossi e capii il sacrificio fatto per trovare quei profumati e rari fiori.
Oggi, dopo tanti anni, “qualcuno” ha bussato alla porta della mia stanza, è entrato, ha appoggiato sulle mie mani qualche cosa di leggero e lievemente profumato e mi ha detto: “Buon Natale Signora Maestra”.
Con la mente son tornata al tempo passato, quel profumo mi ha stimolato l’immagine e ho rivisto lo spettacolo di quel Natale e di quello che questa terra di Maremma mi ha dato, un’emozione forte, che nessuno può cancellare.

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