Viaggio nella storia di una penna d’oca
Ecco il racconto di Zia Mariù (24 ottobre 2006).
I Galli Senoni, capitanati da Brenno, erano riusciti ad assediare Roma.
I difensori della città cominciarono ben presto a soffrire la fame.
Più volte i Romani, guardando le “oche sacre” alla Dea Giunone che vivevano lassù nel recinto del tempio di Giove, avevano pensato che con quelle avrebbero potuto placare i tormenti del lungo digiuno.
Ma le oche erano sacre alla Dea e ucciderle sarebbe stato un sacrilegio.
Una notte un valoroso soldato, Marco Manlio, che dormiva presso il tempio sacro, sentì risuonare uno strano rumore che lo destò d’improvviso.
Prontamente egli afferrò la spada e balzò in piedi.
Subito capì che le oche stavano starnazzando.
Manlio corse alle mura della rocca, guardò giù e si trovò faccia a faccia con un soldato Gallo.
I nemici tentavano un assalto e in quel momento, appunto, un gruppo di essi si spingeva sopra il parapetto per entrare nella fortezza.
In un istante Manlio afferrò il braccio teso del primo Gallo, gli strappò le dita dal parapetto e lo lasciò cadere giù per la rocca.
Iniziò a gridare e il clamore delle oche cresceva cresceva in pochi minuti tutti i soldati romani si destarono ed afferrarono le armi, pronti alla difesa.
Gridando, gli eroici difensori della rocca corsero alle mura.
La sorpresa dei Galli fallì.
In breve essi furono sconfitti e ricacciati.
Ma, fra tutto quello schiamazzar, successe qualcosa di inevitabile: una bella penna bianca si staccò dall’ala sinistra del corpo concitato di una grossa oca e cominciò a scendere giù dal colle come una foglia in autunno e volteggia volteggia: delle leggere folate di vento la allontanarono dal luogo dell’assalto.
Ora su ora giù, ora qua ora là.
La bianca piuma andò a posarsi sopra la soma del somaro Cesare.
“Arrì arrì Cesarì” incitava il contadino.
Ma Cesare di muoversi non ne voleva proprio sapere.
Allora il contadino provò ad incoraggiarlo con una bella carota.
Allungò la mano dentro la sporta per prenderne una quando lo sguardo gli cadde sopra la bella e candida piuma, che era rimasta infilzata tra le trame del sacco che era posto sul dorso di Cesarì.
Era proprio bella ma, non sapendo né leggere e né scrivere, la afferrò e la incastrò violentemente nelle briglie sulla testa dell’asino, facendogli male.
La bestiola che spesso era considerata la personificazione dell’ignoranza e della diabolica ostinazione e forse anche perché era ed è l’animale che sa di più, perché sa di non sapere, si accorse di avere qualcosa di estraneo sulla testa e, da buon somaro che era, cominciò a ragliare e come sapete il raglio è, tra le voci della natura, una delle più intensamente drammatiche, l’espressione di un’urgenza irrimediabile e di una volontà di non tacere più dopo aver troppo taciuto, insomma: il nostro asinello cominciò a ragliare ed a grattarsi insistentemente ad un ciliegio e fece cadere delle ceraselle, rosse, saporite e grosse ceraselle che prima penzolavano come gocce di rubino dalla corona di una regina.
E fu così che Cesarì si abbassò per mangiarle e la piuma gli cadde.
E: corre corre, il contadino per cercare di chiapparla ma, il vento, dispettoso, se la portò via.
Vola qua, vola là, la piuma andò ad adagiarsi proprio sopra il letto di una nobile fanciulla.
Quando ella la vide, tanto era bella la penna d’oca, che non fece altro che prenderla e nasconderla dentro una scatola di legno intarsiata d’avorio e gli anni passarono e la piuma era sempre ben custodita.
Passò di generazione in generazione finché…
Non si sa come mai ma la scatola, oramai dimenticata, venne ritrovata a Bisanzio.
Era stata nascosta dalla basilissa Irene, prima di fuggire dopo il colpo di stato che la depose dal trono di Costantinopoli.
La scatola con dentro la piuma d’oca era stata nascosta minuziosamente sotto una mattonella del pavimento nel palazzo dell’imperatore.
E’ risaputo che Irene fosse una donna colta ed intellettuale e, la splendida piuma, venne usata da lei come penna per scrivere.
Un’ancella la trovò e se la nascose sotto le vesti.
I soldati se ne accorsero e consegnarono la scatola alla moglie dell’imperatore che a quel tempo era Rotreude una delle otto figlie di Carlo Magno.
Si avvicinava Natale e Rotreude non sapendo che regalare a suo padre che, quella stessa notte sarebbe stato incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero, gli donò la splendida piuma bianca.
Fece fare da un artigiano una scatola tutta d’oro e vi fece pure incastonare perle e lapislazzuli, una piccola coltre di tessuto prezioso e vi adagiò la piuma.
Carlo Magno aveva studiato pochissimo e a fatica formava il suo nome, poiché allora per l’educazione dei futuri guerrieri la guerra e la caccia bastavano.
Possedendo ora una penna così preziosa cominciò ad appassionarsi alle lettere e fu tale il suo entusiasmo che istituì una scuola di palazzo.
Tutti i più grandi intellettuali dell’epoca tenevano corsi per i figli dei nobili vicini alla corte.
L’Imperatore possedeva una sensibilità per la cultura e lo studio che cominciò a scrivere in latino e greco e la penna d’oca lo aiutava in questo.
Qualche tempo prima, il Papa Leone III, era stato imprigionato e Carlo Magno lo aveva liberato dalle prigioni in cui era stato rinchiuso da un gruppo di nobili romani.
Il Papa gli fu riconoscente e dopo un pò di tempo dalla di lui investitura, gli scrisse una bella lettera, a cui Carlo rispose in perfetta calligrafia anche grazie alla penna d’oca regalatagli dalla figlia.
In quel periodo crebbe la miseria e le carestie erano sempre più frequenti, il malcontento dilagava tra i sudditi dell’impero.
Avendo capito il valore della penna d’oca con cui scriveva l’Imperatore, dei cavalieri gliela rubarono.
Entrarono un giorno nella tenda di Carlo Magno mentre lui era intento a colloquiare con dei re.
Carlo Magno andò su tutte le furie e vana fu la ricerca da parte dei suoi soldati della scatola d’oro e della piuma che così se ne perse le tracce.
La ritrovò un cavaliere diretto in Terra Santa.
Visto l’immenso valore della scatola tutta tempestata di gemme preziose e perle la affidò alla sua amata, e questa, a sua volta, la donò alla Vergine Maria perché il suo cavaliere tornasse sano e salvo dalle Crociate.
Ma anche nel convento dove era custodita l’immagine sacra della Madonna ebbe vita breve, la scatola d’oro venne nuovamente trafugata.
La bianca penna venne separata dal suo scrigno.
La scatola d’oro venne venduta al mercato nero e la piuma venne lasciata in balia delle intemperie, vicino una chiesa di Firenze.
Passava di lì un tal messere di nome Dante che, vedendo la trascurata ma sempre splendida piuma, si chinò e la raccolse.
A casa con della cenere la tenne a bagno per molte ore onde farla ammorbidire, poi la fece seccare e indurire nella sabbia calda e poi ancora la appuntì con un coltello consumandola un po’: e questa tornò al suo antico splendore.
Decise che con quella penna avrebbe fuso strofe e versi di estrema dolcezza esclusivamente per la sua Beatrice.
Tanto era l’amore per Beatrice che Messer Dante consumava a vista d’occhio la penna d’oca finché un giorno, inavvertitamente, lasciò aperta la finestra del suo studiolo ed il vento la fece scivolare leggermente per le vie di Firenze, sulle rive dell’Arno.
Invano, la cercò Dante e così fu che da quella volta non scrisse più, facciamo per dire, versi per Beatrice.
La splendida piuma fu trasportata lontano lontano dalle correnti e dal vento su di una spiaggia, quando il cuoco di un signore di nome Napoleone la trovò.
Quella sera avrebbe offerto agli ospiti pesce alla griglia e quella penna l’avrebbe usata per ungere l’arrosto ma, passò di lì casualmente il padrone di casa che la fece sua.
L’appuntì ben bene e la pose vicino al suo calamaio.
Il signor Napoleone era un personaggio molto famoso e amava circondarsi di letterati e uomini illustri.
Un giorno andò a trovarlo il duca d’Orléans che vista la penna d’oca se la fece regalare.
Il duca se la portò a casa e se la dimenticò in un libro.
Dopo qualche anno il duca prestò il libro ad un suo dipendente un certo signor Dumas.
Alexandre, questo il nome del signor Dumas, lavorava come copista nella cancelleria del duca e accortosi della penna d’oca tra i fogli del libro la riconsegnò al suo legittimo proprietario e lui, vista la sua onestà gliela regalò.
Cominciò a scrivere di dame e cavalieri, di cappe e spade, sempre con la sua penna d’oca.
Conobbe in seguito un certo Giuseppe Garibaldi e, dovendo costui scrivere al futuro re d’Italia, Alexandre gli regalò la penna d’oca.
Giuseppe accettò volentieri il dono e la conservò in ricordo della loro sincera amicizia.
Passarono gli anni e Giuseppe portò la penna d’oca a Caprera, la sua isola.
Era oramai anziano e stanco e si ritirò per scrivere le sue memorie.
Amava osservare la penna d’oca, oramai consumata, nelle sue mani scarne.
La osservava con malinconia e ricordava i tempi trascorsi: le lotte per la libertà, e pensava a quanto era stato più facile fare la guerra che non la pace; avrebbe voluto farle scrivere le sue avventure, ma chissà se la penna avesse potuto farlo di sé stessa, chi dei due avrebbe avuto più da scrivere!
Entrò prepotentemente nello studio il nipotino di Giuseppe, che lo guardava scrivere con la penna d’oca.
“Nonno nonno che cosa stai scrivendo?” La mia storia aggiunse Giuseppe, invitandolo a sedersi sulle sue ginocchia.
Il bambino si avvicinò ed abbracciò il nonno sussurrandogli nelle orecchie:
“pissi pissi nonno, che cosa è la storia?”
e il nonno : “Non sapere cosa sia accaduto prima della nostra nascita sarebbe come restare bambini per sempre. La storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, annunciatrice dei tempi passati”.
“Nonno ho sonno, mi sono annoiato, voglio dormire!”, concluse il piccolo.
Giuseppe lo accompagnò nella sua cameretta e lo fece coricare, anche lui era stanco e quando il bambino si addormentò prese la bianca piuma, oramai esile, e la infilò nel cuscino del suo piccolo amore insieme ad altre piume e la fece sparire per sempre.