Okey Dokey, sono un punk

okeydokey
Okey Dokey, sono un punk
di Domenica Luciani
Feltrinelli Kids
2003
Premio Ciliegia d’Oro 2004
(sezione scuola media)

Conosco Lenny Cerume

Cioè, in realtà Lenny lo conosco già da un pezzo, per la precisione dall’inizio dell’anno scolastico. Finora però non sapevo nulla di lui, ad eccezione che è il nuovo ripetente, che è stato segato in terza perché ha preso a sputi la prof d’inglese e che ci ha questo look punk che a me non mi può fregare di meno. Ah, e poi che è un po’ tuonato, perché una volta ha detto al bidello che il suo vero nome non è Leonardo Cirri ma ‘Lenny Cerume’. Cioè, io l’avrei capito se questo soprannome schifoso gliel’avessimo affibbiato noi, tipo perché si ficca le dita nelle orecchie e appiccica caccole di cerume sotto il banco. Ma no, lui se l’è affibbiato da solo! Eppure sotto il suo banco non c’è una crosticina gialla a pagarla oro.
Insomma, c’è la prof di musica che ci ha la fissa delle ricerche di coppia. Scrive i nostri nomi su dei bigliettini e poi ne tira a sorte due. I due sorteggiati devono fare la ricerca insieme, anche se si odiano e magari un minuto prima si sono presi a legnate in testa. Ma anche se non si odiano è una palla lo stesso. Difatti a me l’anno scorso è toccato fare una ricerca su Schubert insieme alla Poggiolini, che ci ha questo cespo di capelli rossi in testa che manda un puzzo da vomito. E’ stata un ricerca brevissima (Schubert è nato, morto e ha fatto musica in metà foglio protocollo), perché io quel puzzo non lo reggevo proprio e quando la tipa andava via da casa mia dovevo spalancare tutte le finestre e avviare le ventole sul soffitto.
Quest’anno mi è toccato Lenny Cerume. Argomento: un genere di musica a piacere.
– Vanno bene i jingle? -, chiedo alla prof. Che ci posso fare, gira e rigira, la musica che mi tira di più è quella degli spot pubblicitari.
– E’ un’idea originale -, dice la prof. – Ma te la devi cavare da solo: non credo ci siano libri sull’argomento.
– Te la cavi da solo sì! -, grugnisce Lenny stoppandomi sul cancello all’uscita. – Se pensi che io faccia con te una ricerca su quella merda pubblicitaria sei fuori come un terrazzo!
Io mi stringo nelle spalle.
– Mica c’è problema. Per me va bene anche qualcos’altro -, dico. – Hai altre due o tre cose da proporre?
– Il punk, oppure il punk. O sennò anche il punk -, fa lui con questo ghigno storto. Secondo me si allena allo specchio tutte le mattine per mandare la bocca tutta di lato. Oppure dorme con un elastico teso fra un canino e un orecchio.
– Okey dokey, vada per il punk -, faccio io. – Ma io non so un cavolo sul punk!
– Che te frega, so tutto io -, dice lui. – Praticamente sono un CD-rom vivente in materia.
Detto questo si caccia le mani in tasca e tela senza salutare. Sennonché dopo appena due passi incespica in una lattina di Coca abbandonata sul marciapiede e batte una tronata sulle ginocchia come un deficiente. Ovviamente si fa un male boia, dato che ha questi jeans tutti sbranati proprio sulle ginocchia. Fra parentesi mi chiedo sempre se non senta freddo alle rotule. Comunque si rialza tutto incacchiato e si mette subito a rincorrere la lattina, che sta rotolando allegramente verso la zanella del marciapiede. Poi ci salta sopra due o tre volte, dandoci dentro con le sue Doc Martens. Dopo averla spianata come uno di quei gadget che porta attaccati al giubbotto, la prende in mano e la fissa con odio.
– Stupida tolla, non ci riprovare! -, bofonchia tetro. Poi grida: – Sono Lenny Cerume, capito?
Cioè, questo tipo è uno sbullonato da urlo! O sennò come definireste uno che parla con le lattine, per di più vuote? Sono ancora lì impalato a fissarlo, che lui si volta per scaraventare la lattina nel giardino della scuola e mi vede.
Penso, be’, ora si incacchia sul serio. Si incacchia a bestia, garantito. Invece mi viene incontro col suo passo ciondolante e una faccia abbastanza tranquilla. Sfodera la destra dalla tasca e mi punta contro indice e medio, come volesse spararmi.
– A prop Tim! -, mi fa. Lenny dice sempre ‘a prop’ invece di ‘a proposito’. – Oggi pomeriggio ti aspetto a casa mia. Porta qualche beveraggio e non scordare la password.
– Che password? -, faccio io.
– La password d’accesso alla mia camera. Che ti credi, che ci possano entrare tutti in camera mia?
Ora ci ha due occhi minacciosi, spadellati come uova al tegamino. Cacchio ci combino con questo qui? Ma proprio lui mi doveva capitare per questa ricerca del doppio cavolo?
– No, ovvio -, faccio. – Ma io la password non la so mica.
Lenny si passa due dita sulla cresta gialla. E’ l’unico accenno di capelli che ha, perché per il resto è rasato tipo skin. Però non credo ci abbia già la pelata. Poi si curva verso di me, avvicinandosi al mio orecchio sinistro.
– Rotten -, sussurra furtivo.
– Rotten? -, ripeto ad alta voce.
Mi becco una puntata in mezzo alle scapole. Boia, l’indice di Lenny è più duro di un cacciavite.
– Zitto, scemo! -, mi fa lui. – ‘Rotten’ è la password segreta. Guarda di non farti sentire da nessuno.
Detto questo si ricaccia le mani in tasca e si allontana a grandi falcate.
Io mi carico lo zaino in spalla e mi avvio alla fermata del bus masticando il labbro inferiore. Rotten, rotten, rotten, rotten, rotten. Lo ripeto fra me e me un bel tot di volte per tenerlo a mente.
– Che fai, Tim, reciti il rosario? -, mi chiede il Bagnoli seduto sul muretto davanti alla fermata.
– No, rimuginavo fra me -, rispondo io.
Autobus in arrivo. Il Bagnoli salta giù piombando in una pozza di fango.
– Banzai! -, grida tutto gasato.
Poi ci fiondiamo sul bus salendo dalla portiera posteriore. Ovviamente la gente che deve scendere ci molla una scarica di accidenti. C’è anche Mosè ed è più imbufalito del solito. Stavolta brandisce il bastone e fa l’atto di tirarcelo in testa. Cioè, ce l’avrebbe tirato in testa volentieri se io e il Bagnoli non ci fossimo già schiantati su due sedili a fondo bus. Povero vecchio patriarca, mica ce la fa contro due teppe come noi. Così almeno ci chiama sempre.
Rotten, rotten, rotten, rotten, rotten. Riprendo diligentemente la mia litania, però solo nel pensiero. Certo, se almeno sapessi quello che significa farei prima a ricordarmelo. D’un tratto afferro per il bomber il Bagnoli, che è appena scattato in piedi. Sta prendendo a cazzotti la macchinetta obliteratrice. A quanto pare non ne vuol sapere di forare il suo biglietto.
– Senti Bagnoli, tu sai che cavolo vuol dire ‘rotten’? – gli chiedo di punto in bianco.
– Rotten? -, fa lui. – Ma, vorrà dire ‘rotto’ in tedesco…
Dopodiché, sferrando un altro pugno sulla macchinetta attacca a gridare:
– Qvuesta makkinetta essere rotten! Rotten da far skifen!
Ma io non credo ci abbia dato. Anche perché l’unica parola che so in tedesco è proprio ‘kaputt’ che guarda caso vuol dire appunto ‘rotto’.
Il Bagnoli è ancora alle prese col suo punching-ball metallico che arriva la mia fermata. Mi catapulto giù a volo schivando per un pelo il soffietto della portiera. Una volta sono rimasto incastrato con la testa fuori e il resto del corpo dentro. Cacchio, mi sentivo come un trofeo da caccia! E dire che quell’idiota di autista stava ripartendo come se nulla fosse. Menomale che una signora ha dato l’allarme. Per poco non restavo ghigliottinato.
E’ vero, il bus è pieno di pericoli e la scuola è uno spallamento a randello, ma qualsiasi cosa è preferibile a casa mia. Avete presente una gabbia di matti? Be’, giù di lì. A proposito, i matti sono i miei genitori, cioè principalmente mia mamma, anche se a volte mio padre le dà dei discreti punti. Io faccio a turno l’infermiere del manicomio e l’internato sano di mente costretto a portare la camicia di forza e a stare fra i pazzi suo malgrado.
Siamo tutti e tre a tavola, ognuno davanti a una scodella di gnocchi pronti. Quelli surgelati, sembrano palle di pongo giallino. Va be’, c’è anche di peggio al mondo. D’un tratto la mamma mi agguanta la mano e se la schiaffa sul petto.
– Timoteo, secondo te respiro? -, mi chiede con sguardo allucinato.
– Ma certo che respiri, mamma! Come faresti a vivere sennò?
Papà smette di masticare, inarcando un sopracciglio.
– Vai, eccone un’altra -, sbuffa.
La mamma scatta in piedi, buttando per terra il tovagliolo.
– Oddio, non respiro! -, grida mezza strozzata.
– Ti è andato uno gnocco di traverso? -, chiede papà.
– No! Non respiro e basta! -, grida lei. – Sto morendo!
– Ah, va bene -, borbotta papà rimettendosi a masticare tutto quieto.
Io non so cosa fare. Cioè, da un lato lo so che non c’è da preoccuparsi, che la mamma le fa queste cose, perché è un po’ schizzata e tutto. Dall’altro però non mi riesce di fare come papà, rimettendomi a mangiare come nulla fosse. Così vado a prendere uno specchietto in bagno e glielo piazzo sotto il naso.
– Vedi che si appanna? -, le faccio.
La mamma mi fissa boccheggiando, senza capire.
– E’ il tuo fiato. Vuol dire che respiri. -, le dico.
– Oh, menomale! -, esclama lei riconoscente. – Mi hai levato un peso dal cuore.
Papà sgancia un rutto megagalattico.
Che bellezza, mia madre ha appena scoperto che respira e mio padre che sta digerendo. Ma anch’io ho fatto una scoperta interessante e cioè che la mamma non ha preso le sue gocce. Lo so perché non sono sulla tavola, come invece dovrebbero essere. ‘Ansiolax’, è una roba che la calma un po’. Così schizzo a prendere la bottiglietta prodigiosa e le verso dieci gocce nel bicchiere.
– Non ho sete -, fa la mamma allontanando il calice da sé.
Boia, ti pareva! Alla fine sono costretto a condire la sua insalata con olio, aceto, sale e un tot di gocce di Ansiolax. Di nascosto ovviamente. A mali estremi, estremi rimedi.
– Rotten! -, grido nel citofono come un invasato.
Ronzio sommesso da dietro la grata. Poi una voce di donna chiede gentilmente:
– Chi, scusi?
– Timoteo, un amico di Leonardo -, borbotto un po’ esitante.
– Terzo piano, Timoteo. L’ascensore è sulla destra.
Che figura di cacca! E’ ovvio che sua madre della password non sa nulla. Lo intuisco subito appena la vedo venirmi incontro sulla soglia con questo sorriso televisivo. E’ una tipa normalissima, cioè, voglio dire, pur essendo la mamma di Lenny non ha né gli anfibi, né la crapa skin. L’unica cresta che esibisce è quella del galletto stampato sul grembiule legato in vita. Ha le maniche arrotolate e le braccia infarinate fino ai gomiti.
– Ciao, Timoteo, piacere di conoscerti -, mi fa.
– ‘Sera.
– Scusa, non ti do la mano -, riprende lei, – ma sto appunto preparando le frittelle. Magari dopo ve le faccio assaggiare.
Spaziale, una mamma che prepara le frittelle. Ma da dove è saltata fuori questa qui, da uno spot del Mulino Bianco? Ci manca solo il papà che appare in pigiama a righe, stiracchiandosi davanti a una tazza di latte inondata di sole. Solo che nel quadretto Lenny Cerume ci stonerebbe a palla. Già… e Lenny?
– Leonardo è in camera sua -, dice la mamma televisiva, indicandomi una porta chiusa. Sopra c’è un poster con un teschio con la cresta rossa.
La mamma si ritira nel suo spot e io busso alla porta.
– Password! -, gracchia la voce di Lenny al di sopra di un frastuono frastornante.
– Rotten! -, grido io.
La porta si apre di scatto e un’ondata di casino sonoro mi aggredisce le orecchie. E’ una specie di schitarramento assordante accompagnato da un coretto demenziale di scoppiati stonatissimi.
– Cacchio, abbassa un po’ il volume! -, grido.
Lenny arraffa di malavoglia il telecomando e preme appena un tasto. E’ stravaccato su un letto disfatto, con un calzino giallo e un calzino blu. La camera è tipo una discarica, dove preferibilmente vengano gettati pantaloni lerci, biscotti stantii, giornaletti, CD, cartine di chewing-gum e poster arrotolati – una valanga impressionante di poster. Be’, una stanza ha per lo più solo quattro pareti e del resto queste sono già state ampiamente tappezzate da cima a fondo. Sui manifesti sono immortalate facce pallide coi capelli a riccio, catene, chitarre, microfoni e boccacce (nel senso di smorfie, ma anche di bocche ghignanti piene di denti cariati).
– Hai portato i beveraggi? -, chiede Lenny battendo il ritmo col piede giallo.
Io apro lo zaino e tiro fuori due lattine di Coca. Lenny acchiappa la sua al volo e stacca la linguetta coi denti. Allora io mi schianto su una specie di cubo di gommapiuma, che torreggia sopra un cumulo di biancheria non ben identificata. Spero solo sia roba pulita.
– Attento che lì sotto da qualche parte ci dev’essere il mio telefonino -, dice Lenny cupo.
– L’hai perso?
– Sì, una settimana fa. Aspetto che qualcuno mi chiami per ritrovarlo.
Io faccio per replicare qualcosa che l’occhio mi cade su una mensola con degli strani vasi di vetro sopra. Cioè, in realtà sono normali vasi da conserva, solo che dentro sembra ci sia qualcosa di… brulicante. Lenny intercetta al volo il mio sguardo.
– Pezzi di carne marcia -, fa. – Li colleziono, e poi guardo le larve che ci nascono.
– Bleah, urg, schif! -, grido io stomacato.
Il tuonato ride soddisfatto.
– C’è un’ala di cappone del Natale scorso, un cosciotto d’agnello di Pasqua passata, un hamburger del mio compleanno e…
– Cacchio, basta così! -, lo stoppo io.
Un sorso di Coca mi va di traverso e poi mi torna su a razzo. Boia, sto per vomitare anche l’anima. Invece è falso allarme. Comunque, anche se avessi vomitato per terra nessuno se ne sarebbe accorto. Ecco il vantaggio di stare in una discarica.
Lenny mi guarda divertito e alza di nuovo il volume. Poi si unisce allo stonio generale.
– We are so pretty, oh so pretty… vacant! -, grida saltando sul letto.
– Che vuol dire? -, faccio io.
– Siamo abbastanza, sì abbastanza… vacui -, dice lui.
– Siamo chi?
Lui fa la faccia di compatimento.
– Noi punk, chiaro -, spiega. – A prop, la cominciamo o no ‘sta ricerca?
– Okey dokey, vacuo -, faccio io.
Lenny si mette a sedere sul letto a gambe incrociate. Acchiappa un quablòc e una penna, strappa un foglio, lo appallottola e lo scaglia contro una delle facce che occhieggiano dai poster. E’ un tizio vestito come uno spaventapasseri, coi soliti capelli a vortice e due occhietti a volpino.
– Quello lì è Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols -, attacca a dire Lenny con aria da prof.
– Aha, Rotten era il suo nome allora -, faccio io.
– No, era un soprannome: ‘rotten’ in inglese vuol dire ‘marcio’ -, ridacchia Lenny: – ci aveva i denti marci da far schifo.
Cavolo, credevo che collezionasse anche lui marciumi vari. Tipo pezzi di roast-beef di quando andava all’asilo.

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