La Mammadraga
Luigi Capuana
Tratta da Il Raccontafiabe, di Luigi Capuana, con i disegni di Enrico Mazzanti e Eugenio Cecconi, Bemporad, 1900
C’era una volta una bambina, figlia d’un calzolaio. La madre, cullandola, le cantava sempre:
— Dormi, figlia Regina!
Dormi, il Reuccio arriva!
Il marito, battendo le suole le faceva il verso, per ridere:
Dormi, il Reuccio arriva!
Dormi, figlia Regina!
La madre, dopo pochi mesi, morì e il calzolaio riprese subito moglie. Da prima, parve che la matrigna volesse bene alla figliastra. Spesso, accarezzandola, le diceva:
— Ora ti faccio un fratellino.
— Fratellini non ne voglio.
— Perché?
— Perché…
Passò un anno. Vedendo che non c’era nessuna speranza di avere un figliuolo, la matrigna, indispettita, cominciò a prendersela con la bambina. La maltrattava senza ragione, la picchiava, le faceva patire la fame. Il suo babbo le voleva bene, ma si lasciava menare pel naso da quella donna.
— Babbo, vostra moglie m’ha picchiato!
— Perché non la chiami mamma? Chiamala mamma.
— La mia mamma non è più qui.
— Allora, fa bene a picchiarti, figlia Regina!
Soleva dirle così.
Una volta la poverina era stata lasciata languire di fame un’intera giornata, e la matrigna voleva che le stesse davanti, a guardarla, mentre mangiava a due palmenti.
— Ogni boccone, uno stranguglione! — borbottò la bambina.
— Figlia di tua madre, via di qua! Non ti voglio più tra’ piedi. Via di qua!
E, a pugni e a pedate, la cacciò fuori di casa.
Il marito era andato a consegnare un paio di stivali a un avventore. Tornato in bottega, domandò:
— Dov’è la bambina?
— A fare il chiasso, la fannullona!
Viene la notte, e la bambina non si vede.
— Oh Dio! Le sarà accaduto un malanno! Vado a cercarla.
— A quest’ora? Lasciamo socchiuso l’uscio di casa. Quando torna, se ne va a letto.
II calzolaio, che faceva sempre la volontà della moglie, non insistette. La mattina però, levatosi per tempo, il suo primo pensiero fu per la bambina.
Il letto era ancora intatto, e l’uscio socchiuso.
— Ah, figliolina mia! Dove sarà mai? Vado a cercarla.
— Vuoi perdere la giornata? — disse quella donnaccia — Tu resta a lavorare; vado io. Vedi com’è cattiva! Se la trovo, la picchio di santa ragione.
E uscì fuori.
— Vicine, avete visto quella bambina?
— Ieri andava di corsa laggiù laggiù. Domandatene più in là.
— Comari, avete visto ieri una bambina che correva?
— Andava di corsa laggiù laggiù. Domandatene più in là.
— Buona nonna, ieri avete visto passare una bambina?
— Che bambina o bambino? Non ho visto anima viva!
— Perché rispondete con quella vociaccia e quel visaccio, brutta strega? Vi ho detto forse qualcosa di male?
— Il male non l’hai detto, ma l’hai fatto. Tieni!
E le buttò addosso un catino d’acqua.
Di donna che era, la matrigna diventò lupa; ma lei non se n’accorgeva. Credeva di parlare e abbaiava.
La gente fuggiva al solo vederla comparire.
Torna a casa e infila l’uscio. Il marito spaventato, comincia a tirarle addosso forme, gambali, tutto quel che gli capita sotto mano; poi, afferra un bastone, e giù colpi da orbo.
— Sono io, marito mio! Sono io, marito mio!
Credeva di parlare e abbaiava. Colui, che la vedeva in forma di lupa con tanto di bocca spalancata, aveva paura d’esser morsicato; e perciò dava botte che rompevano le ossa.
La donna, vista la mala parata, scappò a gambe levate.
Per le vie, la gente le correva appresso con pali, forconi, spiedi e armi d’ogni sorta.
— Dàgli! Dàgli alla lupa! Dàgli!
Tornarono addietro soltanto quando la perdettero di vista. S’era rifugiata in una tana.
E la bambina? Messasi a camminare sempre diritto davanti a sé, giunse all’aperta campagna. Incontrò una vecchietta.
— Bambina, perché piangi? Dove vai?
— La matrigna mi ha scacciata di casa a pugni e a pedate. Vo dove mi portano i piedi; lasciatemi andare!
— Se t’incontrano i lupi, ti sbranano.
— La mia matrigna è assai peggio dei lupi; lasciatemi andare.
— Dormi con me questa notte; domani all’alba andrai via.
La buona vecchietta la fece entrare in casa, le diè da mangiare e da bere, e la mise a letto.
La mattina, prima che partisse, le regalò un anellino:
— Tienlo sempre in dito; sarà la tua fortuna. Quando ti trovi in qualche pericolo, di’: «Anellino, aiutami tu!». Ti aiuterà.
La vecchia era una Fata, e l’anellino era fatato.
Poco dopo sopraggiunse la matrigna. La Fata le buttò addosso il catino d’acqua e la cambiò in lupa. Cammina, cammina, cammina, la povera bambina si smarrì in mezzo a un bosco. Cominciava a farsi buio, e non si vedeva faccia di cristiano.
Dattorno, si sentivano intanto gli urli delle bestie feroci.
— Ora mi mangiano viva!
La poverina piangeva, col viso tra le mani, seduta per terra.
Tutt’a un tratto, ecco un calpestìo tra le macchie li accosto, e un fiuto forte forte:
— Uh! Uh! Uh! Oh, che buon odore! Uh! Uh! Uh! Oh, che buon Odore di carne umana!.
Nel buio s’intravvedeva una forma di persona che andava fiutando forte forte tra le erbe e le macchie:
— Oh, che buon odore! Uh! Uh!
La poverina, le si accapponava la pelle. Si rannicchiò, dicendo sottovoce:
— Anellino, aiutami tu!
E trattenne il fiato. Quella forma nera nera le si aggirava dattorno fiutando:
— La sento e non la trovo! Uh! Uh!
Frugava rabbiosamente tra le macchie e le erbe, e tornava a fiutare. Una volta la bambina si sentì quel fiato grosso proprio su la faccia, e le si gelò il sangue per la paura.
— Anellino, aiutami tu!
— La sento e non la trovo! È andata via; ha lasciato qui l’odore soltanto.
E il calpestìo si allontanò tra le macchie e gli alberi folti.
Fatto giorno, la bambina si rimise in cammino.
— Ho fame, anellino; aiutami tu!
Guarda davanti a sé e scorge su l’erba una fetta di pane e un po’ di cacio. Mangia, beve a una fonte e seguita a camminare. Cammina, cammina, cammina, uscì finalmente fuori dal bosco e si sentì allargare il cuore.
La campagna era tutta verde; fiori di qua, fiori di là al due lati della strada, e in fondo una villa in cima a una collinetta, che pareva un giardino. Fatti pochi passi, vede sopra un albero un grand’uccello con le piume di mille colori.
— Uccello, è questa la strada che mena lassù?
— Sì, è questa.
Là finisce ogni dolore,
Chi ci campa non ci muore.
— Che vuol dire?
— Va’ e vedrai.
Più avanti incontra una scimmia che saltava da un albero all’altro. Un po’ impaurita, domandò:
— È questa la strada che mena lassù?
Sì, è questa.
Là finisce ogni dolore,
Chi ci campa non ci muore.
— Che vuol dire?
— Va’ e vedrai.
Davanti il cancello della villa, trovò una bella signora vestita di seta e d’oro con collane, braccialetti, anelli d’oro e di diamanti: un bagliore.
— Ben venuta, bambina! T’aspettavo.
— Mi conoscete?
— Ti conosco,
E nel baciarla, la tastava tutta.
— Che carni fresche! Che bel boccone! Vieni, vieni: questa è casa tua.
E si leccava le labbra con la lingua. La bambina entrò in sospetto:
— Perché dice: Che bel boccone? Anellino, aiutami tu!
E che si vide dinanzi? Invece della bella signora una brutta megera, con naso ricurvo che toccava il mento e per capelli tanti serpenti che si agitavano aggrovigliandosi, battendole sulle spalle, avvolgendosele attorno al collo. Serpenti per braccialetti, serpentelli alle dita a mo’ d’anelli: e non più la veste di seta e ricami d’oro, ma di strane pelli di bestie selvagge.
Intanto ella si trovava già dentro, e colei aveva subito chiuso l’uscio a chiavistello.
Era una Mammadraga, che si nutriva di bambini.
Figuriamoci che cuore fece la poverina a quella vista!
— Anellino, aiutami tu!
— Uh! Uh! Che buon odore!
La Mammadraga la fiutava tutta, ma non poteva toccarla per via dell’anellino e dalla rabbia si mordeva le labbra.
— Che ci hai addosso? Fammi vedere. Perché nascondi le mani?
La bambina, tremante, le mostrò le mani.
— Oh, che brutto anello! È di rame. Te ne darò uno d’oro.
— Questo mi piace e mi basta.
La Mammadraga le voltò le spalle e la lasciò sola.
Di fuori, il palazzo della Mammadraga era bellissimo; dentro però una spelonca, con le pareti e le vòlte tutte affumicate, e un puzzo di carne bruciacchiata che ammorbava. E su per le seggiole gatti neri che facevano le fusa, e per terra rospi che saltellavano; e sui massi sporgenti, gufi appollaiati con gli occhioni luccicanti e il becco insanguinato.
— Anellino, aiutami tu!
La bambina, rabbrividita, si mise a girare per tutte quelle grotte affumicate, sperando di trovare una buca donde scappare. In fondo c’era un uscio, dietro cui si sentivano voci allegre di bambini che facevano chiasso. Picchiò e l’uscio s’aperse da sé.
Ogni notte la Mammadraga andava a rubar bambini per farsi la provvista, e li teneva chiusi lì a fine d’ingrassarli e averli più saporiti quando doveva mangiarseli.
I bambini che non sapevano nulla, facevano il chiasso. Ogni giorno ne arrivava uno, due, talvolta tre e ne mancava sempre uno.
Appena videro la bambina, le furono attorno:
— Come ti chiami?
— Caterina.
— Facciamo il chiasso! Fa’ il chiasso con noi!
— Ah, poveretti! La Mammadraga ci mangerà!
I bambini si misero a strillare e si attaccarono ai panni di lei.
— Quando viene qui la Mammadraga, teniamoci forte per le mani. L’anellino ci aiuterà.
Infatti, a mezzogiorno, entrò la Mammadraga per scegliere il bambino da divorarsi a pranzo.
— Bambino, vieni con me; ti porto dalla tua mamma.
— Anellino, aiutaci tu!
E, presi per mano, si strinsero tutti attorno a Caterina.
La Mammadraga dalla rabbia si mordeva le labbra, si storceva le dita.
— Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame!
Ma non poteva toccarla, per via dell’anellino. E andò via, con la spuma alla bocca, minacciando. L’anellino faceva miracoli.
— Anellino, abbiamo fame, aiutaci tu!
E avevano subito da mangiare.
— Anellino, vogliamo dei balocchi! Aiutaci tu!
E avevano subito dei balocchi.
— Anellino, vogliamo dei dolci! Aiutaci tu!
E avevano dolci d’ogni sorta. Ora che erano avvisati, appena entrava la Mammadraga, si prendevano per la mano e si afferravano ai panni della bambina.
— Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame!
E la Mammadraga andava via, con la spuma alla bocca, minacciando. Scappare però non potevano. Una mattina, la Mammadraga tornò alla sua spelonca, seguita da una lupa e la mise di guardia all’uscio della grotta dov’erano chiusi i bambini.
Era la matrigna di Caterina. La lupa la riconobbe, e disse alla Mammadraga:
— Volete l’anellino? Lasciate fare a me!
— Caterina, che ignorava quella trasformazione, veniva spesso davanti l’uscio a pregarla:
— Lupa, lupetta, lasciaci scappare!
— Che mi dài?
— Una bella tana e pecore e polli per pasto.
— Me li procuro da me.
— Lupa, lupetta, lasciaci scappare!
— Che mi dà!?
— Quel che tu vuoi.
— Quell’anellino.
— Questo no.
— Allora restate tutti a morire lì.
Così passarono molti mesi.
Una notte la bambina si mise a chiamare:
— Vecchina mia, dove tu sei?
— Eccomi.
— La lupa vuole quest’anellino per lasciarci scappare.
— Dalle quest’altro.
Le spiegò come doveva fare e disparve.
La mattina:
— Lupa, lupetta, lasciaci scappare!
— Che mi dà!?
— Quel che tu vuoi.
— Quell’anellino.
Gli altri bambini s’erano già presi per la mano e si tenevano attaccati forte ai panni della compagna.
— Tieni qui — disse Caterina.
La lupa stese la zampa e la bambina le infilò l’altro anellino in un dito.
E che accadde?
Caterina diventò lupa lei, e tutti gli altri bambini tanti lupacchiotti, l’uno con la coda dell’altro fra i denti; il primo teneva fra i denti la coda di Caterina.
La lupa invece ridivenne donna, e la bambina, lupa com’era, riconobbe in lei la matrigna.
— Scellerata, che m’hai fatto! Ora la Mammadraga mi mangerà!
E andò a rannicchiarsi nell’angolo più oscuro della grotta.
Venne la Mammadraga:
— Lupa, e questi lupacchiotti?
— Sono miei figli; li ho partoriti stanotte.
— E i bambini?
— Se li è divorati quella lì.
La Mammadraga si slanciò addosso alla donna e ne fece quattro bocconi. Intanto lupa e lupacchiotti stavano per scappar via. Si udì un urlo:
— È carne avvelenata! Muoio! Muoio!
Si voltarono e videro la Mammadraga che si rotolava per terra e dava gli ultimi tratti.
— Anellino, aiutaci tu!
Ridiventati bambini, si presero allegramente per le mani e fecero un ballo attorno la Mammadraga morta, saltando e cantando:
— Qua finisce ogni dolore!
Chi ci campa non ci muore.
Chi c’è morto, torni in vita.
Mammadraga l’è finita!
Andarono a guardare nella grotta accanto, dov’erano ammonticchiate tutte le ossa dei bambini che la Mammadraga s’era spolpati e videro un brulichio di ossa che si ricercavano, si riunivano, si vestivano di carne, ridiventavano bambini vivi.
Chi c’è morto torna in vita,
Mammadraga l’è finita!
— Andate via, io debbo restar qui — disse Caterina. — Quest’anellino vi condurrà fino a casa. Anellino aiutaci tu! E vi aiuterà.
Si vide uscire dalla spelonca una fila di bambini presi per mano: pareva una processione che non finiva più. I primi erano lontani un miglio, e gli ultimi appena a pochi passi dalla spelonca. E, andavano via cantando:
— Mammadraga l’è finita!
Mammadraga l’è finita!
Partiti loro, la bambina stette ad aspettare. La Fata le aveva detto quel che sarebbe avvenuto.
A un tratto, gran rumore, quasi la spelonca crollasse.
Invece la spelonca diventava un palazzo così magnifico, che lo stesso palazzo del Re era niente al paragone.
Venne l’uccello dalle piume di mille colori.
— Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi.
Venne la scimmia, saltellando, facendo mosse buffe:
— Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi.
E Caterina veniva servita come una Reginotta.
Passarono parecchi anni. Ella si era già fatta una bella ragazza; ma, sola sola, in quel palazzo cominciava ad annoiarsi.
La Fata le aveva detto:
— Devi attendere il Reuccio di Francia. Se non vien lui, non puoi uscire di qui.
E attendeva, stando alla finestra, guardando lontano tutti i giorni, se mai il Reuccio arrivasse. Una mattina, ecco un uomo laggiù che prendeva la strada della collina:
— Sarà il Reuccio.
Indossò i più begli abiti, si ornò delle gioie più brillanti, e gli andò incontro in cima alla scala. Invece era un povero vecchio.
Saliva gli scalini a stento, appoggiato a un bastone.
— Chi siete? Dove andate?
— Vo pel mondo in cerca della mia figliuola. L’ho perduta da tant’anni!
Lei finse di non riconoscere suo padre, ma dalla contentezza, aveva le lacrime agli occhi.
— Mangiate, bevete, e riposatevi. La vostra figliuola non è lontana di qui.
— Come lo, sapete, signora mia?
— Lo so.
Il giorno dopo, il vecchio si apprestava a partire.
— Non vo’ chiudere quest’occhi, prima di ritrovare la mia figliuola.
— È qui vicina. L’ho mandata a chiamare. Mangiate intanto, bevete; vi servo a tavola io stessa.
Poteva mai immaginare che la sua figliuola avesse quel palazzo e fosse così straricca?
Finalmente, una sera, ecco squilli di trombe e scalpitio di cavalli. Il Reuccio di Francia arrivava col séguito. Si trovava a caccia in quei dintorni, e visto il palazzo in cima alla collina, aveva pensato di chiedere ospitalità per quella notte. Il Reuccio era di malumore. Una zingara gli aveva predetto:
— Sposerete la figlia d’un calzolaio!
— Ti si secchi la lingua!
E, per distrarsi del brutto presagio, andava a caccia tutti i giorni. Vedendo quella bella giovane, rimase sbalordito.
— Principessa, vi saluto.
— Non sono principessa, Reuccio.
— Che cosa siete?
— Quel che vuole il Reuccio.
— La mia Reginotta, qua la mano.
— Di là c’è mio padre; chiedete il suo consenso.
Trovatosi a faccia a faccia con quel misero vecchio, il Reuccio si credette burlato. Pure, per curiosità, gli domandò:
— Siete voi il padre di Caterina?
— Sono io.
— Io sono il Reuccio di Francia e voglio sposarla.
— Reuccio, non sta bene farsi beffa d’un povero vecchio! Mia figlia è perduta e non so dove sia. La cerco invano da tant’anni.
— Che commedia è questa! — esclamò il Reuccio, sdegnato.
Entrò Caterina:
— Dite, buon vecchio: dopo tant’anni come riconoscereste la figliuola?
— Ha tre nèi sotto la nuca.
— Come questi qui?
E si chinò per farglieli vedere.
— Ah! Figliuola mia! Figliuola mia!
Si gettarono, piangendo, l’uno tra le braccia dell’altra. Il Reuccio, tutto contento, disse al vecchio:
— Ora manca soltanto il vostro consenso.
— E sposereste la figliuola d’un calzolaio?
Il Reuccio stupì! La zingara aveva predetto il vero.
La giovane però era così bella che non c’era Reginotta al mondo da starle a paro.
Il calzolaio diventò Principe, e sua figlia Reginotta.
Dormi, figlia Regina!
Dormi, il Reuccio arriva!
Ed era arrivato davvero!