Le parole giuste

Massimo Lunardelli

C’era una volta un personaggio davvero molto strano. Uno mezzo matto, un po’ artista, un po’ sognatore, che aveva lavorato in gioventù come pagliaccio, come equilibrista e come domatore di leoni in un grande circo; e che poi si era imbarcato su di un sommergibile prima di decidere che basta, non aveva più nessuna voglia di lavorare. Se ne andava in giro per il mondo con un grande sacco sulle spalle pieno zeppo di ogni genere di parole: aggettivi, verbi, articoli, nomi propri, avverbi, complicatissimi complemento oggetto e poi due punti, punti, punti e virgola, parentesi tonde, quadre, graffe, asterischi. Ogni tanto, andando in giro, capitava che perdeva o dimenticava qua e là intere frasi: lasciava un “mi dispiace” su una panchina, un “ci vediamo più tardi” dentro un bar, un “chissà che tempo farà domani” sopra un tram. Una volta pianse vedendo un “se solo avessi potuto” a cui teneva tanto finire nel lavandino. Ma di solito non ci badava alle parole che perdeva, perché tanto il suo sacco si riempiva ogni giorno di parole nuove che raccoglieva un po’ ovunque lungo il tragitto: erano tutte parole che uscivano a vanvera dalla bocca della gente. E a chi gli domandava come mai facesse quel lavoro tanto strano, lui rispondeva candido: “Sto cercando la parola giusta”. Ma se per caso gli chiedevano: “Quale sarebbe la parola giusta?” allora si grattava i riccioli che aveva in testa e facendo una smorfia diceva: “Non lo so ancora, ma la troverò”.
Passarono i giorni, passarono le settimane, i mesi e gli anni. Quello strano personaggio, sempre con il suo sacco sulle spalle, oltrepassò le montagne, attraversò i mari, conobbe paesi abitati da gente alta come un’unghia di un dito mignolo e altri abitati da giganti grandi e grossi come querce, ma niente da fare, la parola giusta proprio non riusciva a trovarla. Tanto viaggiò che alla fine giunse alla fine del mondo. Finite le case, i mari e le montagne, non c’era più niente, soltanto un’infinita distesa buia e piatta attraversata da una striscia di terra sottile che diventava sempre più sottile man mano che proseguiva: sembrava un filo sospeso nel vuoto e per fortuna che in vita sua aveva fatto l’equilibrista, altrimenti di certo sarebbe caduto a destra o a sinistra per finire chissà dove. Non si udiva il minimo rumore in quel luogo, nessuna parola, neanche un misero “ciao” da qualche parte. E proprio alla fine, sul punto in cui anche quel filo svaniva e restava soltanto il nulla, vide un vecchio con la barba bianca seduto in bilico con le gambe incrociate: “Eccolo qui il mio parolaio” lo accolse ridacchiando, “allora, l’hai trovata la parola giusta?”.
Lo strano personaggio, quel mezzo matto, artista, sognatore, che era stato pagliaccio, domatore di leoni, equilibrista e marinaio in un sommergibile, sospirò triste: “No, purtroppo no. Ne ho trovate tante di parole, ho riempito mille volte il mio sacco, tante ne ho perse per strada, ma la parola giusta quella non l’ho proprio trovata” rispose.
“E hai capito perché non sei riuscito a trovarla?” gli domandò il vecchio accarezzandosi la barba.
“Mica tanto” mugugnò lo strano personaggio grattandosi il testone con una smorfia.
E allora il vecchio, con infinita pazienza gli spiegò: “Povero te, che hai viaggiato per anni in cerca di quello che non c’è. Tu cerchi la parola giusta, ma di parole giuste ce ne sono tante, dipende dalle circostanze. Dove c’è guerra ad esempio, la parola giusta è “pace”, e dove c’è odio bisogna dire “amore”; “giustizia” bisogna gridare dove regna l’ingiustizia, “bontà” e “comprensione” si deve dire a chi ha l’animo cattivo”.
“Grazie, dunque, è la parola giusta che ti devo dire io adesso per quello che mi hai insegnato” capì tutto lo strano personaggio. E se ne tornò indietro per quel filo alla fine del mondo, oltrepassò di nuovo i mari e le montagne, ripassò nei villaggi abitati dai nani e in quelli abitati dai giganti e finalmente giunse nella sua città. Gettò in un grande fuoco quel sacco di inutili parole che aveva raccolto durante gli anni e si ripresentò in quel circo dove aveva lavorato in gioventù. Si dipinse la faccia di bianco, disegnò una lacrima nera sulla guancia destra e diventò un mimo che faceva ridere la gente senza aprire bocca, perché, ora lo sapeva, “silenzio” è la parola giusta dove c’è rumore.

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