Il mio 12° inverno magico

12_inverno_magico
Il mio 12° inverno magico

di Domenica Luciani
Feltrinelli Kids
2005

Illusioni ottiche

Non è facile trovare l’inizio di una storia così fantastica. Immagino che se si trattasse di un film il primo fotogramma sarebbe accompagnato da una musichetta spettrale, che ti mette i brividi solo a sentirla. Almeno però lo spettatore è preparato al peggio. Io invece non ho sentito nessun motivetto raccapricciante quando mi è successo tutto quel che mi è successo. Perciò sono rimasta totalmente spiazzata, preda di un terrore puro e sconfinato. Una sensazione che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico – per intenderci, neanche a quel rompiballe del cane della nostra vicina.
Comunque, pensandoci bene, direi che tutto è cominciato l’ultimo giorno di ottobre del mio dodicesimo anno di vita. Tornando al paragone cinematografico, immaginate perciò che la prima inquadratura assoluta del film mostri il foglietto corrispondente del calendario soffermandosi sulla scritta “Halloween”. Rapido cambio d’immagine: nella seconda inquadratura, due ragazzine di seconda media stanno scendendo i gradini della loro scuola, zaino in spalla. Il trillo della campanella di fine lezioni risuona alle loro spalle e sciami di ragazzi si riversano fuori del cancello scolastico. Fra questi, un ragazzo coi capelli color sabbia tropicale e gli occhi color acqua di laguna (capelli biondi e occhi azzurri non rende così bene l’idea).
– Forza, datti una mossa! – mi ha sussurrato tutta gasata Sabrina (la più paffutella delle due ragazzine). – Vallo almeno a salutare!
– No, dev’essere lui a ricordarsi di me – ho sussurrato di rimando io (la più carina delle due).
Sabrina mi ha strattonato per un braccio.
– Ma come fa a ricordarsi di te se non sei tu a ricordarglielo? – mi ha sputacchiato nell’orecchio.
Nel fare testa a testa con me, un mio capello è rimasto incastrato nel suo apparecchio. Il momento era tragico: adesso eravamo agganciate come due gemelle siamesi e lei mi stava trascinando verso Flavio. Flavio è appunto il ragazzo che ricorda un depliant di viaggi alle Maldive.
Con un atto di eroismo, mi sono svincolata bruscamente da lei. Un male cane, il mio capello lungo è rimasto appiccicato penzoloni alla banda del suo apparecchio. Poi mi sono piantata sul marciapiede a braccia conserte. Sabrina ha inchiodato bruscamente e Flavio per fortuna si è dileguato dietro l’angolo.
– Senti Cecy, io proprio non ti capisco – ha detto Sabrina sfilandosi via il capello ciondoloni con pollice e indice. – Hai o non hai una cotta bestiale per quel tipo dalla notte dei tempi?
– Be’, la notte dei tempi risale ad appena un anno fa – ho specificato io. Sicuramente ne ero rimasta folgorata da quella volta che l’avevo visto rotolarsi nel fango nel cortile di scuola. Stava facendo a botte con un suo compagno di classe. Irresistibile, con la faccia motosa e i pantaloni mimetici sembrava Rambo alla riscossa, però ossigenato.
-… ma il punto è – ha continuato a predicare Sabrina – che non puoi pensare di cuccarlo se lo eviti sempre!
In realtà non lo evitavo affatto. Diciamo che facevo il fugone ogni volta che lo scorgevo a un paio di chilometri di distanza. Mi metteva strizza il solo vederlo, figuriamoci parlargli! E poi speravo sempre che un giorno o l’altro si ricordasse della nostra conversazione nell’aula di musica. Risaliva ad appena nove mesi prima.
-… non puoi sperare che lui si ricordi di quelle due menate che vi siete scambiati nell’aula di musica una vita fa – ha proseguito Sabrina. – Com’era? Ah sì, domanda:  Scusa, ho scordato il flauto dolce da qualche parte. Per caso l’hai visto?’ Risposta: – Bo’!’
– No, il mio flauto era traverso. E poi lui ha risposto – Cacchio ne so-.
Detestavo quando Sabrina demoliva la mia conversazione storica con Flavio. E poi a questo punto avrebbe dovuto ricordarsela a memoria, dopo che gliel’avevo ripetuta svariate centinaia di volte.
Nel frattempo eravamo arrivate al semaforo pedonale. Sabrina ha premuto il pulsante, mentre l’ometto rosso ci costringeva in stand-by. Lei ne ha approfittato per riprendere la sua tirata, urlando per farsi sentire sopra il caos del traffico.
– E tieni presente che fa già la terza. Se non concludi nulla entro quest’anno scolastico, sei più o meno spacciata. L’anno prossimo non lo vedrai più, perché lui sarà già alle superiori, dove magari come compagna di banco gli capiterà una bellona coi controfiocchi.
Certe volte Sabrina era proprio crudele. Così mi è venuta una gran rabbia e le ho risposto fuori dei denti:
– Dimentichi la festa di stasera. Ellie ha detto che ha invitato anche lui!
– Sì, insieme ad altre centocinquanta persone – ha aggiunto lei ironica. – Fra cui una sessantina di ragazze che si metteranno tutte in tiro, travestite da streghe supersexy…
In quel momento è scattato il verde e io ho spiccato la corsa, lo zaino ballonzolante sulla schiena. Sabrina mi ha saltellato dietro.
Una volta approdate sul marciapiede opposto, io mi sono voltata di scatto:
– Be’, forse il mio costume da zombie non sarà granché sexy – ho detto, – ma si dà il caso che abbia un asso nella manica!
Sabrina ha fatto un risolino.
– E quale? – ha chiesto. – Il mascara effetto ciglia extralunghe o lo schiarente per i baffi?
– Lo vedrai stasera – ho risposto sibillina. – In ogni caso penso che mi noterà…
-… e d’un tratto si ricorderà di te – mi ha interrotto lei. – E allora penserà: – Oh, che dolce quella che aveva perso il flauto dolce!’
– Traverso, scema! – le ho gridato mollandole uno spintone. Poi ci siamo salutate perché eravamo arrivate all’incrocio col viale Volta e le nostre strade si separavano.
Mentre trotterellavo lungo il viale alberato, ho notato una zucca intagliata che ghignava da dietro il vetro della finestra di un villino. Malgrado fosse ancora giorno, la candela nascosta dentro la zucca era già stata accesa e nel riquadro buio della stanza retrostante mandava bagliori sinistri. Non che la sua vista improvvisa mi avesse minimamente turbato. Primo, perché non mi impaurivo facilmente (a meno che Flavio non fosse nei paraggi); secondo perché in quel momento la mia testa era presa da ben altri pensieri.
Non potevo fare a meno di rimuginare su quello che avevo letto sul settimanale “Salute Medica” che avevo fregato dallo studio di papà. L’articolo sconsigliava ai negozianti di cedere alle richieste di ragazzi minorenni che non fossero accompagnati dai genitori. Mi chiedevo se a me sarebbe andata liscia. Perché era ovvio che non mi sarei portata i miei a traino, visto che mai e poi mai mi avrebbero dato il permesso. Avrei trovato un negoziante accondiscendente? Me l’avrebbe fatto lo stesso o mi avrebbe mandato in bianco?
Ero talmente assorta in questi interrogativi, che a pranzo ho inghiottito tutte le olive della pizza quattro stagioni, nocciolo compreso. Me ne sono accorta solo quando ho visto che mamma e papà stavano sputando noccioli a tutto spiano, mitragliandoli dentro il pugno chiuso e poi disponendoli ordinatamente sul bordo del piatto.
– Qualcosa non va? – ha chiesto ad un tratto papà tirandomi un’occhiata di straforo. – Sei troppo silenziosa oggi.
– No, stavo solo pensando a tutti i noccioli di oliva che ho appena ingoiato. Spero che non mi ostruiscano l’intestino.
– Santo cielo, Cecilia, hai ingoiato i noccioli? – ha chiesto la mamma allarmata. – Quanti erano? La prossima volta che vai al gabinetto, chiamami subito: voglio contarli e vedere se li hai rifatti tutti!
Ce la vedevo la mamma a frugare impensierita nella mia cacca. Perché lei era sempre preoccupata in ogni istante che mi facessi male. Tipo, mi diceva di non parlare troppo in fretta perché poteva andarmi l’aria di traverso, oppure di non fare gli occhi storti neanche per scherzo perché il muscolo ottico si poteva inceppare condannandomi allo strabismo a vita. E papà, pur essendo medico dentista, non era certo da meno. La scorsa estate mi aveva perfino impedito di andare a trovare Sabrina di ritorno dalle sue vacanze in Kenya, perché aveva paura che si fosse portata dietro qualche zanzara malarica in valigia.
Non ci vuole molto a capire che se i miei avessero appena sospettato che di lì a qualche ora sarei andata a farmi fare un buco nella pancia si sarebbero accasciati sulle loro pizze, fulminati da un infarto secco.

Ovviamente avevo pensato bene di scegliere qualche negozio del centro storico. Infatti il gioielliere del nostro rione conosceva abbastanza bene mia mamma e io non volevo proprio rischiare che le andasse a spifferare tutto.
Scesa dall’autobus in Piazza Duomo, mi sono diretta a passo di carica in via Calzaioli. Mentre camminavo nella solita ressa di turisti, sono andata a inciampare nei sabot arancioni di una ragazza con la faccia piena di lentiggini. Aveva un aspetto irlandese e ne portava uno fatto a stella che occhieggiava sotto la cortissima felpa.
– Sorry! – le ho detto con un sorriso.
– Di niente! – ha risposto lei in perfetto italiano. Evidentemente mi ero sbagliata sulla sua nazionalità.
Solo allora ho visto che si teneva allacciata per la schiena a uno strafigone con una massa di capelli gialli che lo faceva sembrare un pagliaio semovente. Lo strafigone la guardava con occhio perso e l’ha perfino baciata sui capelli. Chiaramente l’unico posto senza lentiggini.
– Okay, vada per la stella’, ho pensato.- Se fa questo effetto sui biondoni, non posso che sperare in bene’. Purtroppo infatti viviamo in un paese dove i ragazzi biondi naturali sono mosche bianche. Considerato che il gene del capello biondo si va rapidamente estinguendo, per cui è stato calcolato che fra cinquant’anni non si troveranno più biondi nemmeno sui ghiacci dell’Islanda, è logico che non è facile accaparrarsene uno. Ecco perché una ragazza mediamente carina come la sottoscritta, ma senza grandi segni particolari (a parte i capelli a spaghetto scotto e una voglia di caffellatte sul polso sinistro) doveva ricorrere ad altri mezzi per attirare l’attenzione di un esemplare così raro. E se la stella aveva funzionato sulla lentigginosa, che si era cuccata il pagliaio, perché non doveva funzionare anche con me che aspiravo a Flavio?
Questo per dire che avevo le idee ben chiare quando mi sono fiondata dentro la prima gioielleria, quella con la parata di croci di brillanti esposte in vetrina. Dietro il bancone c’era una commessa col cappello da strega in testa. Buon segno: mi faceva sperare che fosse una tipa amena, ben disposta anche verso le ragazzine minorenni non accompagnate dai genitori.
– Desideri? – mi ha chiesto la tipa.
– Vorrei un piercing sull’ombelico. A forma di stella – ho sparato io tutto d’un fiato. Però sono stata ben attenta a non farmi andare l’aria di traverso.
– Puoi sceglierlo già se vuoi – ha detto lei, – poi magari torni con tua madre o tuo padre e io te lo faccio.
– Non mi sono spiegata – ho replicato. – Io lo voglio adesso, subito! Mi serve urgentemente per stasera!
La tipa ha scosso lentamente la testa, seguita dal suo cappello a punta.
– Mi spiace, non posso fartelo senza l’autorizzazione dei tuoi. Sai com’è, se poi si infetta e roba del genere. Non voglio responsabilità.
Strega dei miei stivali. Uscendo dal negozio ho cacciato le mani nelle tasche, stringendo il foglio da cinquanta euro, regalo di compleanno della nonna. Ero disposta a sacrificarlo in un colpo solo pur di avere quel piercing, ma a quanto pare la commessa fattucchiera non aveva il senso degli affari. Comunque non disperavo di trovare un negoziante di manica un po’ più larga e di cervello più aperto.
Così ho battuto tutte le bigiotterie, gioiellerie, oreficerie e argenterie del centro. Praticamente, ogni buco che vendesse paccottiglia, vera o falsa, con cui agghindarsi. Fallimento su tutta la linea: alcuni non mettevano proprio piercing; gli altri, non appena mi vedevano, mi chiedevano di tornare coi miei genitori. Al punto che, scocciata da quest’andazzo, ho inventato che ero orfana e che i miei genitori, morti dopo una lunga malattia, avevano espresso come ultimo desiderio che mi facessi il piercing all’ombelico. Si voleva dunque contrastare la volontà di due poveri moribondi? Sennonché i negozianti fedifraghi, stringendosi nelle spalle, mi hanno raccomandato di tornare in compagnia del mio tutore ovvero del soprintendente dell’orfanotrofio dove adesso alloggiavo.
Era quasi l’ora di chiusura, i lampioni erano accesi da un pezzo e io ero al colmo della disperazione. Passando davanti a un hotel, ho visto uscire un’allegra comitiva di scheletri e diavoletti. La notte di Halloween era già cominciata e io non ero ancora nemmeno travestita. Non ero ancora pronta per la festa che stavo sognando da mesi, che si teneva nella villa più sontuosa di Firenze e a cui era invitato anche il ragazzo che occupava tutti i miei pensieri da un anno a questa parte. Ma il fatto era che in quel piercing avevo riposto tutte le mie speranze. Senza l’ombelico forato, non avevo più voglia di andare alla festa.
Mentre camminavo abbacchiata nell’ultima sera ottobrina, ho pensato che prima di rientrare alla base un bombolone caldo avrebbe potuto tirarmi su di morale. In via del Corso c’era un bar famoso dove ne facevano di favolosi. Così mi sono avviata nella direzione che sapevo e poco dopo ho imboccato quella via, con l’acquolina già in bocca al pensiero della crema tiepida sulla lingua. Purtroppo però il bar non c’era più. A me sembrava di ricordare che si trovasse accanto a un negozio di roba cinese. Il negozio di cineserie infatti c’era sempre, ma accanto c’era una botteguccia polverosa che non aveva nulla a che vedere col modernissimo bar-pasticceria, tutto specchi e rifiniture di acciaio.
Ad ogni buon conto, tanto per sincerarmi, ho dato un’occhiata al di là del vetro opaco della piccola bottega. Disposte su dei piedistalli rivestiti di velluto consunto c’erano pietruzze di tutti i tipi. Cioè, diverse per colore, dimensione e materiale, ma in realtà tutte ugualmente rotonde e con un punto scuro nel mezzo. E tutte stranamente… mobili. Non so come spiegarlo, ma mentre le fissavo intrigata era come se loro seguissero il mio sguardo dovunque lo posavo.
Sicuramente un’illusione ottica, come quella di chi guarda un ritratto e si sente perennemente osservato dalla faccia del dipinto. Comunque sia, avevo altro da fare che rimuginare sullo strano fenomeno. Perché a me più che quelle bizzarre pietruzze interessava il cartello che campeggiava in vetrina e che diceva: – Si applicano piercing all’ombelico’.
Praticamente mi sono catapultata dentro la bottega alla velocità della luce. Dentro però c’era solo un vecchio cadente seduto su una poltrona rappezzata con un gatto nero sulle ginocchia. E io non avevo certo intenzione di farmi forare la pancia da una cariatide con le mani tremanti per il morbo di Parkinson. Perciò ho fatto subito dietro front. Ma il vecchio mi ha richiamata indietro:
– Volevi un piercing all’ombelico, vero? – ha detto.
– Come fa a saperlo? – ho chiesto io.
– L’ho dedotto – ha risposto lui: – se entri in un negozio dove l’unico servizio che si offre è l’applicazione del piercing all’ombelico, è chiaro che non puoi volere altro.
Io mi sono avvicinata alla poltrona.
– Perché non lo applica anche al sopracciglio o al labbro? – ho chiesto titubante. – Perché solo l’ombelico?
Il vecchio ha fatto un sorriso sdentato al gatto nero. E il gatto ha sospirato! Ha sospirato proprio come la nostra prof di lettere quando si stupisce della nostra ignoranza. Ma forse anche quella era stata un’illusione ottica, con illusione acustica connessa.
– Vedi – ha preso a dire il vecchio, – l’ombelico non è una parte qualsiasi del corpo: è il centro della vita e la sede suprema dell’anima. Se provi uno dei miei piercing, lo capirai.
– Me lo metterebbe anche senza la presenza dei miei genitori? – ho chiesto io sconcertata.
– Ma certo – ha risposto lui con voce flautata. – I genitori sono così poco presenti nei tuoi pensieri di tutti i giorni… Perché vorresti che fossero presenti adesso?
Giusto, il ragionamento non faceva una grinza. Elettrizzata da questa prospettiva, ho dimenticato i miei timori iniziali. Dopodiché ho dimenticato proprio tutto, perché ancora adesso non riesco a ricordare il momento in cui lui mi ha applicato il piercing. Non ricordo nemmeno perché io non abbia insistito ad avere una stellina di brillanti, anziché quella ridicola pietruzza gialla che sembrava l’occhio di vetro di un orsacchiotto di peluche.
Tutto quello che so è che poco dopo mi sono ritrovata al capolinea dell’autobus senza avere la minima idea di come ci fossi arrivata. Avevo un leggero bruciore sulla pancia, ma per il resto stavo benone. Malgrado la mia temporanea amnesia, ero certa di aver ottenuto finalmente quello che volevo. Stavo appunto per verificare che è arrivato il bus.
In preda a una grande euforia, sono saltata su, mi sono seduta accanto al finestrino e ho sollevato il maglione per dare una tastata alla pancia. Volevo giusto sentirlo al tatto, poi a casa l’avrei esaminato per bene davanti allo specchio. Fantastico, era proprio sopra l’ombelico! Ho sorriso beata fra me, gettando uno sguardo fuori dal vetro. Allora ho visto un gatto nero seduto impettito sulla panchina sotto la pensilina della fermata. Il bus è ripartito e il gatto mi ha fatto ciao ciao con la zampa.

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