Sarò la tua ombra. L’amicizia è un trucco?!

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Sarò la tua ombra.

L’amicizia è un trucco?!
di Domenica Luciani
Giunti Editore
Collana “Graffi”
2005

Tramonto d’autunno

L’ultimo giorno perfetto è cominciato con una delle nostre prodezze, per la precisione col mitico giro delle scampanellate. Bea aveva un cerotto sul naso e teneva il dito pigiato a bestia sulla bottoniera del Villino Emilia. Io reggevo il pacchettino argentato e cercavo di fare la faccia seria. Tutte e due avevamo il piede destro appoggiato alla tavola dello skate.
Quando abbiamo sentito il ronzio del citofono, ci siamo fatte a vicenda il nostro augurio segreto:
“Forza e coraggio, dopo aprile viene maggio, dopo maggio viene giugno ed avremo tutti in pugno!”
In realtà maggio e giugno erano passati da un pezzo, ma il nostro grido di battaglia era senza tempo. Valeva anche in quella domenica di inizio novembre, in cui l’aria si era fatta più pungente e la strada era tappezzata di foglie infuocate.
Una voce stridula ha gracchiato da dietro la grata del citofono:
“Chi è, la posta?”
“In un certo senso” ha strillato di rimando Bea.
“Che vorrebbe dire?” ha obiettato la voce stridula.
“Signora, ci apra e le spieghiamo tutto” ha tagliato corto Bea.
Io le ho tirato un’occhiata di sconfinata ammirazione. Bea sapeva sempre tenere testa a tutti, era una che non la smontavi nemmeno col cacciavite. Perciò nel giro delle scampanellate lasciavo che per lo più parlasse lei, anche se lo scherzo l’avevo ideato io.
Dal portoncino della villa è sbucata una tizia vecchiotta e lampadata a palla con l’auricolare del telefonino che le penzolava dall’orecchio.
“Scusa, Massimo, ti metto in attesa” ha sputacchiato dentro al suo cellulare, “ci sono due ragazzini al cancello e non ho idea di che cosa vogliano”.
Chiaro,”ragazzini” al maschile valeva per me. Mai che qualcuno mi scambiasse per quello che sono: una ragazza.
Insomma, la tipa è rimasta incastrata nella porta, senza degnarsi di aprire il cancello. Poco male, le sbarre erano rade e il pacchettino argentato che reggevo era ben visibile per lei. Per noi invece era più che visibile la medaglia al valore che le luccicava sul petto grinzoso. Cioè, non lo so se era una medaglia al valore, ma in ogni caso era un ciondolo delle dimensioni di un piattino e aveva tutta l’aria di essere d’oro. Non c’è che dire, prometteva bene come abbocco.
La tizia ci ha tirato un’occhiata scocciata e ha alzato appena il mento come per dire – parlate ora o tacete per sempre, rompiballe che non siete altro- . Naturalmente Bea è partita a razzo.
“Scusi se la disturbiamo, signora” ha detto, “ma abbiamo trovato questo sul marciapiede davanti alla sua villa e pensiamo possa averlo perso lei”.
Io ho sollevato il pacchetto come un vessillo trionfale. Un autentico falso d’autore, che avevo confezionato avvolgendo una piatta scatola di latta da sigari con la carta di uno dei regali che avevo ricevuto per la Cresima (una pacchianissima cornice d’argento con una colomba obesa appollaiata sopra). Ecco perché sull’involucro scintillante campeggiava la scritta violetta:  – Gioielleria Castaldi – Oro, Argento, Preziosi -.
La tizia ha perso subito l’aria scocciata e ha mormorato all’auricolare:
“Massimo, ci sei sempre? Ah, bene, perché me la sbrigo in un attimo”.
Poi ha sceso i tre gradini che la separavano dal cancello e ci ha aperto cautamente, gettando subito un’occhiata da avvoltoio al pacchetto. Quando ha cominciato ad annuire lentamente, abbiamo capito che era fatta.
“Oh, menomale…” ha detto con un sollievo finto come le sue labbra siliconate. “Mi deve essere scivolato dalla borsetta poco fa, quando sono rientrata dallo shopping in centro. La zip non chiude bene e io sono un po’ miope e anche distratta”.
Seee, come no, e fuori c’era la nebbia, l’eclissi di sole e il black-out totale. Io avevo già i crampi allo stomaco dal ridere e ho dovuto mordermi la lingua a sangue per evitare di esplodere in un megasghignazzo. Bea invece non ha battuto ciglio.
“Be’, la prossima volta stia più attenta” ha mugugnato accigliata.
“Certo” ha risposto lei agguantando il pacchetto. “Ma voi avete diritto a una ricompensa… Se aspettate un attimo, torno subito”.
E qui, invece di rientrare in casa a prendere il portafoglio come avremmo immaginato, la tizia si è eclissata nel retro del giardino, sparendo dietro un intrico di cespugli.
“Dove cavolo sta andando?” ho bisbigliato io.
Bea si è stretta nelle spalle e ha sussurrato:
“Certi riccastri come quella sono eccentrici e tengono i quattrini nascosti nei posti più impensati, tipo dentro al pozzo nero o sepolti fra le cipolle nell’orto”.
Lo speravo. Perché, stando alla legge, avevamo diritto al 10 per cento del valore di quanto le avevamo riportato. E stimando che dentro al pacchettino ci fosse una parure di diamanti da 10.000 euro, ci sarebbero spettati almeno 1.000 euro tondi tondi. Certo, la parure non c’era mica, ma lei non poteva saperlo né poteva controllare perché altrimenti si sarebbe tradita.
Sennonché, dopo qualche minuto, la tizia è rispuntata con un cesto sottobraccio. Dentro c’erano degli strani frutti arancioni che sembravano arance abortite.
“Eccovi un bel cesto di cachi” ha detto tutta soddisfatta. “Appena colti, sono ottimi!”
“Cachi? Immagino siano anche lassativi” ha detto Bea agguantando il cesto. Dopodiché si è data l’abbrivo col piede sinistro ed è filata via sullo skate come una scheggia. Io naturalmente l’ho seguita a razzo, mentre la tizia riprendeva la conversazione con Massimo, che era sempre in linea.
Abbiamo fatto a rotta di collo tutta la discesa di via Boccaccio, col vento che soffiava nelle orecchie e le foglie avvizzite dei tigli che scendevano dal cielo come neve dorata. Lanciando urla selvagge, centravamo apposta tutte le buche sull’asfalto, facendo stridere le ruote degli skate. Qualche giorno prima con quel giochetto Bea per poco non ci aveva rimesso il setto nasale, finendo a faccia in giù sul selciato. Ora però eravamo in uno di quei momenti di esaltazione totale, quando sai per certo di essere immortale e che nulla ti può succedere. Chi se ne fregava se non avevamo avuto la ricompensa. Dopo cinque scampanellate, finalmente la prodezza era riuscita, lo scherzo aveva funzionato!
“Avevo ragione, i riccastri sono le prede ideali” ha detto Bea schiantandosi su una panchina e facendovi slittare sotto la tavola. “Non sono né onesti come la gente povera, né disinteressati come i veri ricconi. Sono dei pidocchi, ecco cosa sono”.
“Pidocchi, eccome” ho aggiunto io. “Non so se rendo: darci questi frutti cacherecci per ricompensa!”
Bea ha lanciato un caco oltre lo steccato di un giardino e mi ha mollato una sonora pacca sulla coscia.
“Sai una cosa, Sam? Vorrei solo aver potuto vedere la faccia che ha fatto quella quando ha scartato il pacchetto e ha aperto la scatola”.
Qui ci siamo messe a nitrire come cavalli imbizzarriti e non riuscivamo più a smettere di ridere. Perché tutte e due ci immaginavamo la scena della tizia lampadata con la medaglia al collo che strappava avidamente l’involucro, convinta di mettere le grinfie su una collana di perle o su un anello con solitario incastonato, e che poi si trovava a tu per tu con una cacca rinsecchita di gatto – quella che avevo raccolto io dalla lettiera di Twiggy la sera prima.
“Be’, chi di cachi ferisce, di cacca perisce!” ha esclamato Bea in una breve pausa fra uno sghignazzo e l’altro.
Così, proprio quando stavo cercando di tornare seria, mi sono accasciata sulla panchina presa da un nuovo attacco di risa isteriche. Bea si è messa la testa fra le ginocchia e mi ha fatto eco ridendo, ridendo e ridendo fino a sputare l’anima per terra. Ci succedeva sempre così ed era il massimo, perché era come trovarsi insieme sullo stesso vagone dell’otto volante, in preda alle stesse vertigini. Io ho socchiuso gli occhi filtrando fra le palpebre i tenui raggi del sole autunnale. Sopra di noi una striscia di cielo azzurro e terso che sembrava quello di sempre.

L’ultimo giorno perfetto stava volgendo al crepuscolo, benché fosse solo pomeriggio inoltrato, e Bea era stesa a pancia in giù sul tappeto marocchino di camera mia. Io stavo mescolando in un boccale da birra Fanta, Sprite e Coca. Poi ho dato qualche tiro con la cannuccia.
Bea si è compressa la pancia facendo la faccia concentrata.
“Scommetto che adesso ne sgancio anch’io uno megagalattico…” ha detto sicura del fatto suo.
“Secondo me devi berne un altro po’” ho fatto io porgendole il beverone. Qui, senza manco accorgermene, ho mollato un rutto gigantesco.
“Acci, due a zero per te” ha detto Bea con una punta d’invidia. “Mi chiedo proprio come tu faccia!”
“Te l’ho detto, il segreto è la cannuccia. Bevendo con la cannuccia aspiri anche un sacco d’aria e così fai rutti maggiorati”.
Non so se mi spiego, è una regola fondamentale per vincere una gara di rutti.
Bea ha ingollato un bel po’ di beverone, dopodiché ha pareggiato con due schianti degni di un irlandese alcolizzato. Twiggy si trovava proprio sotto tiro, acciambellata sul tappeto, ed è scappata via a orecchi bassi scambiando il doppio rutto per una soffiata felina. Io e Bea abbiamo scordato di aggiornare il punteggio sulla lavagnetta per rotolarci sul pavimento in preda a un altro convulso di risa. Qui la porta si è spalancata di botto. La mamma si è affacciata reggendo Manuela con un braccio. Teneva la testa pelata di Manu incastrata fra la spalla e il mento come fosse un violino.
“Samuela, potresti fare un po’ più piano?” ha detto spazientita. “Sto cercando di addormentare tua sorella che non ne vuol sapere di fare il pisolino pomeridiano”.
Bea è schizzata in piedi come una molla.
“Sa perché non vuole dormire?” ha gridato alzando in aria il boccale. “Perché non ha fatto il ruttino!”
Ovviamente siamo ripiombate in una voragine di risate, mentre la mamma scuoteva la testa all’indirizzo della zia Irene, che nel frattempo era venuta a sbirciare con un pannolone pieno in mano.
“Beata età, l’infanzia” ha detto la zia. “Questo ridere senza senso di tutto”.
La mamma ha stretto le labbra.
“A tredici anni però non si è più bambini e prima o poi bisogna decidersi a crescere” ha mormorato.
La zia ha richiuso la porta, però l’ho sentita lo stesso rispondere:
“Stai scherzando? Sam non crescerà mai!”
Me lo auguravo proprio. Chi aveva voglia, infatti, di fare la vita di mia mamma? Con le occhiaie fisse, le tette gonfie e doloranti e tre denti in meno persi durante la gravidanza. Per non parlare della vita di mia zia Irene, che pur di farsi portare al cinema da uno straccio di individuo qualsiasi si sottoponeva alle torture più spietate: diete a base di crusca, jogging in salita sotto sole-pioggia-vento, depilazioni feroci tipo scalpo di pellerossa. E il bello era che la mamma invidiava la zia, perché era ancora single, mentre la zia invidiava la mamma perché era sposata. Risultato: nessuna delle due era felice e si sarebbe presa volentieri a scudisciate nelle gengive pur di cambiare musica.
Bea mi ha scosso da questi pensieri. Si è buttata a sedere sulla mia sedia girevole, ha abbandonato la testa sullo schienale e si è messa a girare vorticosamente con lo sguardo fisso al soffitto. Poi ha preso a borbottare delle frasi incomprensibili.
“Che stai dicendo?” le ho chiesto.
“Interrogo l’Oracolo Supremo del Gioco” ha risposto. “Spero che ci suggerisca un gioco tranquillo, che non faccia tanto ridere come la gara di rutti. Così la tua sorellina si può addormentare senza problemi”.
“Se non fosse già così buio potremmo fare un po’ di rampe con gli skate” ho detto scrutando dal vetro della finestra. Le rampe erano panchine, gradini, muretti e tutto quanto si prestasse allo scopo. Le macchine no perché i proprietari si incavolavano a fuoco.
Bea ha smesso di scatto di avvitarsi su sé stessa. Poi ha gridato:
“Il Gioco della Verità! Grazie, Oracolo Supremo!”
Io ho fatto un rutto tardivo, ma era un fuori gioco e non contava più. Così ci siamo stravaccate sul mio letto e abbiamo fatto la conta. La prima domanda è toccata a Bea.
“Esiste qualcuno che ultimamente ha azzeccato che sei una femmina?” ha chiesto con un sogghigno.
Non mi sembrava una domanda imbarazzante e così ho risposto di botto, senza esitazione:
“Macché. Però esiste qualcuno che, malgrado ormai mi conosca da un po’, mi scambia puntualmente per un maschio: ieri a scuola la bidella delle elementari mi ha dato del “mocciosetto di quinta” per la centoquarantesima volta. Cioè, non solo mi ha preso per un ragazzo, ma pure per un pivello di quinta elementare!”
Come dire, due offese al prezzo di una.
Bea ha abbassato gli occhi e ha detto:
“Be’, il problema è che vai a scuola in un istituto comprensivo dove voi delle medie siete mescolati coi pischelli delle elementari “.
Sempre meglio che il “Collegio delle Orsoline Devote”, dove va lei: una scuola privata dove i prof sono tutte suore decrepite. Ma nel Gioco della Verità bisogna essere sinceri fino in fondo, così ho detto:
“No, il vero problema è che sono piatta come una tavola da skate e in più porto troppo bene i miei anni. Ne ho tredici, ma ne dimostro al massimo nove”.
Qui ci siamo spanciate di nuovo, finché non ci siamo ricordate di abbassare il volume. Poi è toccato a me fare la domanda di rito:
“Hai i peli folti… dappertutto?”
Erano due estati che le vedevo quei ciuffetti sotto le ascelle.
Bea è arrossita e questo per lei era molto strano. Poi si è schiarita la voce e ha detto:
“Diciamo che ormai ho l’aspetto di una donna adulta”.
“Non vale, non hai risposto alla mia domanda!” ho protestato io.
Al che lei ha obiettato che invece aveva risposto eccome, bastava che avessi presente com’era una donna adulta. Io vedevo sempre mia mamma uscire dalla doccia. Così ho pensato a Bea in quel modo. Ma era difficile immaginarla con quel cespuglio sotto la pancia, i buchi della cellulite sulle cosce e un groppo di vene varicose dietro il ginocchio. Quanto a me, non avevo ancora nessun pelo fuori posto, se si eccettua una leggera peluria bionda fra le gambe. Bea mi ha come letto nel pensiero:
“Non ti preoccupare” ha detto. “Anche se sei indietro con lo sviluppo, un giorno cresceranno belli folti anche a te”.
“I baffi saranno i primi” ho detto e così siamo scoppiate a ridere di nuovo.
Poi abbiamo ripreso con le domande e ci siamo chieste di tutto e di più. Così ho scoperto che la più grande paura che Bea aveva al mondo era quella di venire strangolata, che la persona che odiava di più era il fornaio che una volta le aveva lasciato una ditata infarinata sul sedere, e che la cosa che amava più di tutte in assoluto era fare prodezze con me. Questo fatto delle prodezze l’ha detto davvero, e io invece mi aspettavo dicesse andare sul pedalò con suo zio bagnino o guadagnare la cintura superiore a karatè o volare in aria sullo skate. Insomma, mi ha preso in contropiede e forse per questo ho sentito come una fitta improvvisa allo stomaco.
Alla fine Bea mi ha rivolto l’ultima domanda della serata, l’ultima dell’ultimo giorno perfetto.
“Posso chiederti quanti adoratori hai?”
Io l’ho guardata perplessa e sono rimasta zitta. Allora lei si è affrettata ad aggiungere che mi capiva bene, che neanche lei avrebbe saputo dire un numero preciso, perché ne aveva tanti e poi tanti che era davvero impossibile contarli tutti. Io ho pensato a Gianni figlio del tabaccaio che le regalava le gommose a forma di coccodrillo, agli imbianchini sulle impalcature che le fischiavano dietro, a quel vecchiardo del fornaio che le sbavava intorno a tutto spiano. Anche se si infagottava nelle felpe extra-large e nei pantaloni tecno, Bea attirava le occhiate di tutti. Ma questo non era certo il mio caso.
“In realtà io non credo di avere adoratori” ho risposto soprappensiero. “Ed è meglio così perché non saprei proprio che farmene”.
I maschi erano più fastidiosi del moccio che ti cola dal naso.
“Dimentichi il Puffo” ha ridacchiato Bea.
Come se quello avesse contato qualcosa! Un nanerottolo che mi scriveva bigliettini sgrammaticati e mi regalava merendine biascicate in pegno del suo amore.
“Figurati, acqua passata” ho detto. “E poi non l’ho più visto dalla fine della seconda elementare”.
“Per cui adesso lui starà puffando dietro a qualcun’altra!” ha esclamato lei.
Così abbiamo sghignazzato un altro po’, finché Bea ha guardato l’orologio e ha afferrato giacca e skate. Io sono rimasta col naso incollato alla finestra finché non l’ho vista scomparire oltre il cancello condominiale con la tavola sottobraccio. Il buio era calato all’improvviso e si erano accesi i primi lampioni. La notte autunnale aveva inghiottito per sempre la vecchia Bea, ma io ancora non lo sapevo.

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