La pentola del Diavolo

Beatrice Donghi

pentola del Diavolo

Leggiamo insieme: La pentola del Diavolo di Beatrice Donghi

Un giorno il Diavolo sentì nominare il proverbio: “Il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, e, siccome fino allora non aveva fatto nemmeno le pentole, si mise in testa di fabbricarne subito una.
Quando l’ebbe finita la guardò bene da tutti lati, soddisfatto; era proprio una bella pentola, bruna e lucida di fuori come una scorza di castagna, e dentro di un morbido colore arancione che faceva piacere a guardarsi. Il Diavolo pensò che una pentola come quella poteva forse mandargli dritto all’inferno qualche bella anima grassa di goloso, e decise di venderla al mercato e vedere un po’ che cosa gli sapeva combinare.
Ci mise sopra il coperchio di un’altra pentola (perché si sa che il Diavolo i coperchi non è capace di farli) e la posò sul banco di un venditore di terraglie; poi sparì tra la folla, e chi s’è visto s’è visto.
Fu comprata quasi subito da una donnetta che aveva rotto la sua vecchia pentola il giorno prima.
Si era al principio di giugno; nei campi che la donna attraversava per tornare a casa sua le fave erano già alte e cariche di baccelli grigioverdi, che spandevano nell’aria il loro odore schietto e amarognolo.
La donnetta pensò di mangiare fave bollite a colazione, e appena arrivata a casa disse a sua figlia Pasqualina di buttarne qualche manciata nella pentola nuova, mentre lei andava in solaio a far certe faccende.
Quando tornò le fave borbottavano piano piano nella pentola, ed ogni tanto si sentiva un fischio, o uno schiocco d’acqua che sembrava rumore di qualcuno che inghiottisse…
“Ora dovrebbero essere pronte” pensò a un certo punto, e alzò il coperchio. Non c’era nemmeno una fava nell’acqua: la pentola se le era mangiate lei!
“Pasqualina!” urlò la donna “Brutta distrattaccia! Ti sei dimenticata di mettere le fave!”.
“Sì che le ho messe!”.
“Contamene un’altra, di storia”.
“Mamma, t’assicuro che le ho messe”.
“Ah, insisti? Toh!” e le diede uno schiaffo: poi le mise sotto il naso la pentola.
La bambina rimase di stucco.
“Eppure le avevo messe!”.
“Pasqualina, vuoi un altro schiaffo?”.
Pasqualina si rassegnò.
“Mah! Mi sarò sbagliata”.
Misero delle altre fave sul fuoco; e questa volta sembrava che la pentola volesse fare il suo dovere, perché dopo due minuti cantava e mandava fumo, e dentro si sentivano le fave ballare come impazzite.
“Che stiano già bollendo?” si chiese la donnetta, e andò a scoperchiare la pentola: ma non si vedeva più un filo di fumo, le fave erano ferme e quando mise un dito nell’acqua la sentì fredda gelata.
“Non capisco queste cose” disse la donnetta impaurita, e voleva buttare via l’acqua e le fave e mangiare il pane solo, per quel giorno, ma Pasqualina la persuase a provare un’altra volta.
Andò bene: le fave bollirono nel tempo giusto, senza fare scherzi, e mamma e figliola, tutte contente, le misero a tavola col pane, l’olio e l’aceto.
Ma avevano appena assaggiato la prima cucchiaiata che si guardarono in faccia facendo una smorfia.
“Hai ragione” confermò Pasqualina “manca il sale; ma ora ne aggiungo un po’”.
“Stupida impertinente, vuoi anche scherzare?”.
“Ma perché? Che cosa dici?”.
“Dico che ti meriteresti un buon castigo”.
“Come mi tratti male oggi! Che cosa ti è successo?”.
Era successo semplicemente che nelle fave di Pasqualina mancava il sale, mentre quelle della mamma erano salate, ma salate come il mare. Come mai?
Eh, ve l’ho detto: non per niente quella pentola era stata fabbricata dal Diavolo.
E se ne stava lì tranquilla e lucida sul focolare spento, come se in tutta quella questione non c’entrasse per niente.
Ma a un tratto diede un guizzo e incominciò a mandar fuori un fumo azzurro, grasso, che odorava prima di pollo bollito, poi di maiale, poi di una buona e saporosa zuppa piena di prezzemolo e di carote.
“Ah, Gesù, è una pentola stregata!” gridò la donna e Pasqualina le si buttò al collo strillando.
E intanto la pentola fumava e fumava, e già tutta la cucina era invasa da quel fumo azzurrognolo che sapeva di cavoli neri, poi di fagioli con le cotiche, poi di patate dolci e farinose, poi di castagne bollite col finocchio.
E già il fumo incominciava a uscire dalle finestre; sembrava che quella pentola non volesse fermarsi mai.
“È indemoniata!” singhiozzava Pasqualina “Oh, mamma!”.
Così la donnetta pensò di portare la pentola da Fra Pacifico, un frate che tutti tenevano in conto di Santo; forse lui avrebbe trovato qualche cosa da farci.
Per la strada i monelli e i cani le correvano tutti dietro, perché dalla pentola che portavano sotto il braccio continuavano a uscire il fumo e gli odori; ma lei senza dar loro retta andò dritta dal frate.
“Fra Pacifico, ho una pentola indemoniata: fateci qualcosa, per carità”.
Fra Pacifico la guardò di dentro e di fuori, poi sorrise un po’ e fece sul fondo il segno della Croce.
La pentola smise di fumare, diventò rossa come se le avessero acceso dentro un gran fuoco, e si spaccò.
Era una spaccatura sottile, ma andava da un manico all’altro; la pentola non sarebbe servita più a niente ormai.
“Bel guadagno!” disse la donnetta, inviperita da tutte quelle disgrazie.
“Mi avete rotto la pentola nuova. Grazie di niente, proprio!”.
E così la pentola del Diavolo fece anche dare una sgridata a quel sant’uomo di Fra Pacifico.
Ma fu l’ultima malefatta, perché appena arrivata a casa la donna la buttò in un angolo dell’orto e non la guardo più.
La pentola stette lì in penitenza finché l’acqua e il sole non le ebbero tolto, ciascuno a suo modo, il lucido e l’umore pepato che il Diavolo le aveva messo addosso.
A poco a poco la terra entrò per lo spacco e la riempì fino a metà; e l’estate dopo ci crebbe un bel papavero dal gambo peloso e dai petali che sembravano di seta rossa. Perché anche una pentola fabbricata dal Diavolo può essere capace di dare qualche cosa di bello, purché l’argilla sia buona e purché sia stata benedetta dalla mano di un sant’uomo qual era Fra Pacifico.

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